Tra gli aspetti più sconcertanti delle conseguenze della pandemia c’è, in Italia in particolare, l’assoluta e pressoché totale noncuranza nei confronti del mondo dello spettacolo, derubricato, nel migliore dei casi, ad aspetto ludico, appannaggio di persone ben lontane dalla concretezza di una fabbrica, un’industria, una qualsivoglia attività produttiva. Un anno non è stato sufficiente a dare risposte, programmi, progettualità, concretezza a un mondo che non è assolutamente marginale o ininfluente economicamente (la parola magica!). Assomusica, associazione di produttori e organizzatori di spettacoli di musica dal vivo, stima siano circa 250 mila gli addetti al settore live (570 mila il totale del settore). Con l’aggravante che una parte consistente degli operatori ha sempre lavorato prevalentemente e forzatamente «in nero», percependo emolumenti senza alcun supporto fiscale. Con la conseguenza che i soggetti in questione non possono certamente richiedere «ristori» di alcun tipo, non esistendo, se non in veste economicamente irrilevante, da un punto di vista fiscale.

SEMPLICI DOMANDE
È un sistema che vige da sempre e che, in questo momento drammatico, mostra tutta la sua precarietà. La veloce e, sicuramente superficiale, «inchiesta» che segue, è un tentativo di capire cosa potrà succedere, interpellando fonti diverse, presenti in prima linea, autorevoli e referenziate. Uno spaccato di quanto accade, ora, in Italia. Ovunque si alzano auspici di speranza affinché si riapra al più presto e si possa sciamare al cospetto dei nostri gruppi preferiti o tornare su un palco ad esibirsi di fronte a folle impazienti. Le domande, rivolte ad alcuni operatori del settore e persone «informate sui fatti» sono molto semplici e aspramente minimali. Sì, ma dove? Quanti saranno i locali che riusciranno a riaprire? In che modo? Quanto le cose saranno come prima?
Al di là dell’aspetto meramente logistico ed economico ci si dimentica spesso di un particolare non trascurabile: la passione, l’entusiasmo, l’attitudine che hanno sempre animato le persone che gestivano locali, gruppi, festival. Quanto è rimasto di questa voglia di fare, rischiare, esporsi, tuffarsi di nuovo in un’incognita ancora più oscura, rischiosa e quanto mai precaria? Non si tratta ovviamente di una ricerca esaustiva ma semplicemente di un tentativo di capirne un po’ di più. Sul campo, nella strada, tra la gente che ci ha lavorato da sempre e che ora ha il compito difficilissimo di ricostruire sulle macerie.

PARERI CONTRASTANTI
I pareri sono talvolta contrastanti, a volte fiduciosi, altre più scettici. La passione è però rimasta, pulsa e conforta. Massimo Pirotta, giornalista e tra i fondatori del mitico Bloom di Mezzago, dove sono passati migliaia di gruppi, puntualizza da subito un aspetto molto importante: «La situazione dei live era già da tempo in crisi, ben prima della pandemia. I concerti erano frequentati in prevalenza da persone avanti con l’età, abituate a questo tipo di fruizione ma i giovani latitavano sempre di più. La pandemia ha dato un forte colpo. Il Bloom ha continuato ad operare grazie al fatto che si avvale di un vasto supporto di volontari che lo fanno per passione. In questo senso le associazioni, i collettivi, sono quelli che hanno più possibilità di ripartire e sopravvivere. Dovranno cambiare comunque i cachet e le richieste».
Gli fa eco Enrico Croci, storico organizzatore di eventi, soprattutto nel bolognese. «Constato che in molti, nonostante tutto, non abbiano capito la gravità di quanto successo e continuino a fare richieste economiche addirittura superiori a prima! Nel mondo anglosassone si stanno organizzando da tempo molto meglio e preparando a lavorare con continuità attraverso lo streaming. È un cambiamento drastico ma, almeno per il momento, inevitabile. In Italia è prevedibile una lunga serie di chiusure di locali e spazi». Ferruccio Quercetti è una delle tre anime dei CUT, esplosiva band bolognese, all’attivo una ricca carriera discografica e tour in tutta Europa. «A Bologna come nel resto d’Italia, la sopravvivenza del circuito live in cui si è sempre mosso un gruppo come il nostro, basato essenzialmente sulla passione per la musica e sulla curiosità per la cultura “alternativa”, è a rischio da ben prima dell’inizio di questa emergenza sanitaria. Chiunque si muova in questo ambiente non lo fa certo per ottenere facili profitti. In città ci sono locali attivi da quarant’anni e poi ci sono i centri sociali, anch’essi un pilastro imprescindibile per l’underground locale».

METODI POP
Rimanendo vicini al mondo dei musicisti, Umberto Palazzo, fondatore dei Massimo Volume, apprezzato solista e mente pensante dei Santo Niente ma anche organizzatore e dj: «L’ultimo quindicennio è stato caratterizzato dalla progressiva trasformazione della scena indie da insieme di realtà artigianali basate sulla passione per la musica di una cerchia legata alla stampa di settore, a circuito per artisti supportati da una struttura aziendale se non industriale, con l’allargamento ai metodi del pop e con il pubblico del pop che di fatto è andato a sostituire il pubblico di appassionati vecchia scuola nei suoi stessi locali di riferimento. Questo fenomeno ha portato, già da ben più di un decennio, alla progressiva estinzione della scena dei locali indipendenti. Si è estinto anche il pubblico di appassionati, anche per un ricambio generazionale tutto a favore del pop. Il Covid si innesta su questa già disastrosa situazione. Prevedo che a livello industriale sarà impossibile ripartire dagli obiettivi economici pre-Covid, dato che in due anni i gusti del pubblico pop cambiano totalmente. Invece a livello di circuito indipendente si ripartirà da una tabula rasa assoluta, da cui riemergeranno gli appassionati, anche se a un livello micro. A questo livello si possono aprire opportunità interessanti, se si accetta il fatto che anche il rock alternativo è entrato nel suo periodo “jazz” e che quindi si rivolge a una nicchia non piccola di appassionati ultra quarantenni. Il piccolo concerto rock di nicchia va trattato come il suo equivalente discografico, cioè il vinile. Qualità della visione, dell’ascolto, comodità della struttura e coolness della situazione possono giustificare un alto prezzo per una fascia di pubblico che può spendere e che avrebbe sicuramente piacere e voglia di ascoltare gli artisti che ama in una cornice decente».
Lorenzo Moretti è una delle colonne portanti dei Giuda, band romana assurta da tempo a popolarità internazionale: «Organizzare un concerto presuppone una serie di costi fissi, come la Siae, le attrezzature tecniche, i tecnici di sala, le spese per gli artisti e tante altre cose che con pochi paganti è impensabile coprire. Credo che questo porterà alla chiusura di molti locali che molto spesso si trovano a dover fare i conti anche con affitti gravosi. Anche per quanto riguarda le band la situazione non è certo rosea, per molti gruppi medio/piccoli che guadagnano soprattutto dai live è dura andare avanti; chi come noi vive di sola musica è costretto a trovarsi un nuovo impiego. In una situazione del genere, con cachet ridotti, non si riuscirà a sopravvivere a lungo e la musica diventerà l’hobby del fine settimana. Proveremo a ripartire da zero ma c’è davvero bisogno, da parte di tutti, di sostenere la musica, il cinema, il teatro, l’ arte come non mai».

AGGREGAZIONE
Massimiliano La Rocca, apprezzato cantautore nonché organizzatore e co-gestore dello spazio Progresso di Firenze, mette il dito in una piaga evidente: «Sul piano sociologico siamo a un punto di non ritorno, rafforzato e legittimato da un processo involutivo di ogni forma di socializzazione e di aggregazione “sana” che era già in atto, rallentando e sterilizzando totalmente la partecipazione e quelle forme di socialità delle quali la musica dal vivo necessita. Nel nostro vocabolario la parola “aggregazione” è stata sostituita da “assembramento”, e anche questo è un fatto che per invertirlo occorreranno forse anni. L’associazionismo forse si salverà, quantomeno quello condotto su base forfettaria e volontaristica. Ma a quale costo o in quali condizioni sarà in grado di ripartire? Dove sono i “ristori” (altro nuovo termine davvero indegno da parte della politica) per il terzo settore?».
Pier Adduce è il leader dei Guignol e ha sempre avuto un ruolo attivo nell’organizzazione di concerti nell’ambito lombardo: «Si tratta di far riemergere anche una diversità di linguaggi in musica, se fosse possibile, in modo più affine a quello che accade in altri paesi. Vediamo cosa resta e cosa e se si potrà ripartire a far qualcosa con presupposti diversi». Giuseppe Miceli da anni gestisce la Solid Bond, agenzia di management che ha spesso privilegiato la scena affine all’acid jazz: «La situazione è in evoluzione. Rispetto a qualche mese fa ora riusciamo a riprendere una certa progettazione, rimanendo sotto una determinata capienza e rispettando tutte le precauzioni del caso. Sulla sopravvivenza delle realtà più piccole ho qualche remora. Sebbene vivessero già situazioni difficili, e quindi abituate a convivere coi problemi del fare quadrare i conti, penso che il Covid abbia rappresentato il colpo di grazia. Qualcuno dovrà gettare la spugna definitivamente. Una volta che l’emergenza rientrerà nella “normalità” tutto ricomincerà negli ambienti lavorativi come prima»,

LICENZIAMENTI
Anche la Corner Soul è un’agenzia che opera da anni, specializzata soprattutto in ambito rock’n’roll/punk/beat, coorganizzatrice dell’immarcescibile Festival Beat. Andrea Biso Bisoli ha sempre parole precise e taglienti: «I danni veri si vedranno dallo sblocco dei licenziamenti. Quindi c’è il rischio che anche i locali che fino ad ora sono sopravvissuti dovranno licenziare i dipendenti, con le prevedibili conseguenze. Per i cachet delle band è una semplice questione di mercato. Domanda-offerta. In concreto: che norme igieniche e di accesso ci saranno? E come verranno vissute queste problematiche? Prevedo che ci saranno anche tracciamenti e cose simili, sempre mal digeriti dagli italiani. In sintesi: i biglietti dovranno per forza essere più alti. Chi paga igienizzanti, personale extra anti-assembramenti, capienze limitate? Oltre alla necessità di messa a norma dei locali. Se pensi ai bagni di certi club…»
Carmine Caletti è un agitatore culturale di Cremona, dove gestisce, con un nucleo agguerrito di giovani ragazzi, iniziative di ogni tipo, in particolare intorno al Circolo Arcipelago: «Mi mantengo fiducioso, a maggior ragione perché in questo momento abbiamo a disposizione armi importanti rispetto a sei mesi fa. Però il timore è che, più si va in là, le piccole realtà a base volontaristica disperdano o azzerino le risorse, non solo economiche, ma proprio in termini di energie umane. Tenersi in contatto sul web, in tal senso, risulta fondamentale. La speranza di poter tornare a vivere situazioni live grandi e piccole come le abbiamo conosciute c’è e resta incrollabile. Chi può e deve, però, intervenga».

ZERO RISTORI
Riccardo Bernini è invece tra i gestori di un mitico locale milanese, il Ligera, sorta di Cavern nostrano in via Padova dove si svolge da anni una frenetica attività musicale e culturale: «Purtroppo si salveranno davvero in pochi, siamo praticamente a un anno di chiusura e, se guardo a un locale come il Ligera, che ha attività esclusivamente notturna, lascio immaginare cosa possa significare. Al di fuori da ogni polemica di matrice politica aggiungo che, per il mio locale, ad oggi non è arrivato neppure uno dei ristori promessi. Ripartire sarà certamente possibile. Di certo serviranno idee e formule nuove. Credo che anche la Siae dovrebbe provare a snellire la macchina burocratica. La musica ripartirà dai club, dagli spazi più contenuti, dallo scambio fra pubblico e artista perché non c’è streaming che tenga: la musica la devi sentire sulla pelle».
Davide Patania del Retronouveau di Messina è ironicamente pragmatico: «Molto dipenderà da quanti soldi arriveranno ai club dal Recovery. Ci potrebbe essere un boom economico che interesserà anche il nostro settore. Se invece rimarrà tutto precario, bisognerà rimboccarsi le maniche e ripartire dandoci una mano. Artisti, booking, management e venue faranno un picnic a Ground Zero e ognuno porta qualcosa». Anche Mass Guidone, storico organizzatore nella zona di Napoli, vede positivo: «Sono un ottimista quindi dico che secondo me ci sarà un’esplosione di eventi e una partecipazione da parte del pubblico senza eguali. Non voglio immaginarmi di vivere in un mondo apatico completamente disinteressato alla musica e alle arti». Sasà Costantino lavora presso la Cooperativa Folias che gestisce il centro di Monterotondo, in provincia di Roma Il Cantiere: «Tutte le norme al momento non lasciano spazio a sogni o interpretazioni. Dal nostro punto di vista appena si potrà dobbiamo organizzare più live possibili sostenendo la scena dei più precari tra i musicisti ma anche tra i tecnici del suono. Sviluppare iniziative che riattivino l’economia culturale partendo anche da piccoli eventi. Qui oltre alla paga giornaliera la gente senza nulla da fare sta impazzendo. Individuo questa fase come un grande serbatoio di rabbia ma anche come benzina messa in cascina. Ci sarà una esplosione di energia appena sarà possibile, l’indole dell’essere umano è fatta di sogni da esprimere».

INCERTEZZA
Franca Milia lavora per l’Associazione Casa Natale Antonio Gramsci di Ales (Oristano) ed è protagonista nell’organizzazione di molti eventi in Sardegna: «Non essendoci ancora alcuna certezza, la programmazione degli eventi procede a rilento. L’impossibilità di programmare ora, tra l’altro, si ripercuoterà inevitabilmente sui costi delle manifestazioni, visto che i trasporti sono una voce che per noi sardi incide in maniera importante e che può essere abbattuta solamente prenotando i voli con largo anticipo. Per chiedere alla Regione di farsi carico del problema si è recentemente costituito il Coordinamento Unitario Spettacolo Sardegna che raccoglie circa 90 tra associazioni e imprese che si occupano di spettacolo dal vivo (teatro, musica e danza). La realtà sarda dei locali pre-epidemia era già molto carente per cui crediamo che saranno pochi quelli che potranno riprendere le attività ma non siamo in grado di quantificare. La situazione della nostra associazione è composta da volontari/e (anche se per me preferisco usare il termine “militante”) che non operano a scopo di lucro. Siamo comunque pronti a riprendere le attività ordinarie e lo faremo non appena la normativa lo consentirà, per citare Gramsci, con l’ottimismo della volontà».
Le considerazioni degli interpellati erano più articolate e approfondite ma il succo del discorso è stato sintetizzato e sostanzialmente lascia percepire un’ovvia e realistica incertezza che pervade l’intera società ma che in questo ambito ha il rancido sapore del totale abbandono da parte delle istituzioni che nemmeno si sono premurate di promettere qualcosa o prospettare soluzioni. Semplicemente non si sono espresse, ignorando il problema. La tabula rasa incombente (e ormai effettiva) potrà essere un trampolino di lancio ma allo stesso tempo una pietra tombale di un’epoca.