A chi transita in questi giorni nelle principali stazioni ferroviarie, non sarà sfuggita la trovata pubblicitaria del Centro Studi Bruno Leoni, think tank iper-liberista: il debitometro, che calcola in tempo reale l’aumento del debito pubblico italiano.

Come un’enorme Grande Fratello, tra la marca di un profumo e la proposta di un viaggio esotico, il debitometro compare per ricordare a tutti la trappola dentro la quale va rinchiuso ogni desiderio di una vita più dignitosa.

La trovata è interessante perché esprime appieno le contraddizioni del capitalismo, che, dopo neppure tre decenni dalla «fine della storia», non può più proporsi come un orizzonte generalizzato di benessere e, su questo, costruire un altrettanto generalizzato consenso; al contrario, può giocare la propria sopravvivenza solo sull’espropriazione feroce dei diritti delle persone, dei beni comuni e della democrazia.

È così che, sui grandi schermi delle stazioni, il messaggio che viene presentato passa, nell’arco di pochi secondi, dall’immagine etico-morale dell’«uomo colpevole del debito», perché non lavoriamo abbastanza, andiamo in pensione troppo presto, sperperiamo e viviamo costantemente al di sopra delle nostre possibilità; a quella dell’«uomo innocente e spensierato del consumo» che merita di possedere ciascuna delle merci paradisiache che sfilano sullo schermo.

Ma se si guarda con ancora più attenzione, si scopre come l’insieme del messaggio non sia rivolto ad un generico pubblico, bensì a due categorie sociali nettamente distinte: i ricchi e i poveri.

Già, perché i prodotti pubblicizzati ossessivamente riguardano l’economia del lusso, ovvero quella parte di società che, non solo non ha risentito della crisi, ma vi ha trovato persino nuove fonti di arricchimento; mentre il debitometro incombe per bloccare qualunque desiderio di chi appartiene a fasce sociali diverse, sia esso un anelito individuale a voler entrare a far parte dell’élite, sia essa una rivendicazione collettiva verso una trasformazione della società.

Nel frattempo, il debito pubblico a fine 2017 è arrivato a 2.256,1 miliardi, con un aumento di 36,6 miliardi rispetto all’anno precedente e di 119 miliardi dopo tre anni di governi austeritari, che della riduzione del debito pubblico avevano fatto il proprio «mantra».

Uno scenario perfetto per proporre, con il beneplacito del Centro Studi Bruno Leoni, una novità mai sperimentata nel nostro Paese: le privatizzazioni, ovvero una nuova stagione in cui si proceda, attraverso il transito in Cassa Depositi e Prestiti, a consegnare al mercato beni immobili e servizi pubblici locali.

È per questo che la stretta al collo dei Comuni non conosce sosta, e, nonostante il contributo degli stessi al debito pubblico nazionale non superi l’1,8% (in diminuzione), si trovano a vedersi scaricare la gran parte delle misure prese a giustificazione dello stesso.

Varrà la pena, a questo proposito, ricordare come, pur avendo, nel periodo 2010-2016, aumentato le imposte locali di 7,8 miliardi, i Comuni dispongano oggi di risorse complessive inferiori di 5,6 miliardi rispetto a quelle che detenevano nel 2010.

Da qualunque parte la si prenda, quella del debito pubblico è la gabbia perfetta per l’approfondimento delle politiche liberiste e di austerità; non a caso, nell’imminenza di un appuntamento elettorale che dovrebbe vedere le forze politiche cimentarsi su questo tema, le stesse paiono quasi tutte impegnate nel medesimo gioco di prestigio: far credere che siano realizzabili tutte le promesse messe in campo senza mettere in discussione l’attuale dinamica sul debito imposta dai vincoli europei da Maastricht al «Fiscal Compact», passando per il «Patto di stabilità» e il «Pareggio di bilancio».

Quanto al Centro Studi Bruno Leoni, consiglieremmo una variazione di programma: perché non proiettare l’aumento in diretta dell’evasione fiscale in questo Paese?