Ha compiuto sessant’anni Michel Jarrell, il compositore ginevrino emerso negli anni Ottanta con le sue partiture dense e rigorose, ed è difficile pensare a un modo più prestigioso di festeggiare questa data che con una nuova opera al Palais Garnier di Parigi.

Bérenice, opera in quattro sequenze su libretto dell’autore da Jean Racine, è stata creata con successo sabato 29 settembre, con il direttore musicale dell’Opéra Philippe Jordan sul podio, e rimarrà in scena fino al 17 ottobre. Ancora una volta dopo Medea Jarrell affronta un grande personaggio femminile della storia del teatro. La commissione dell’Opéra di Parigi chiedeva un testo in francese e Jarrell ha colto l’occasione per misurarsi con il «grand siècle» francese, tentando anche una sortita più compiuta del terreno del canto operistico. Articolate sulla scena da Claus Guth (scene e costumi di Christian Schmidt e Linda Redlin) nella tripartizione simmetrica del piano nobile di un elegante edificio ottocentesco, le quattro sequenze dell’opera si sviluppano con il moto inquieto di una scrittura aspra e ferrosa.

Un incedere frastagliato e ossessivo che pare scaturire dall’obbligo che Jarrell si è dato di rispettare la cadenza del fastoso alessandrino di Racine. Ma l’asprezza della scrittura vocale, sia per la svettante protagonista, Barbara Hannigan, che per il Tito dolente e ruvido di Bo Skovhus, raddoppiata poi dalla violenza esagitata del ripetuto confronto fisico sulla scena, finisce per costringere il verso in un carcere espressivo quasi soffocante.
Il libretto asciuga Racine nello sviluppo e nei personaggi (restano solo gli incisi funzionali degli ottimi Ivan Ludlow, Alistar Miles e Julian Behr, Antiochus, Paulin, Arsace ) ma le sole scene che convincono davvero sia sul piano scenico che musicale sono il disperato confronto fra Tito e Berenice, l’esalazione estenuata del finale e il toccante confronto fra Berenice-Hannigan e la magnifica Phénice, quasi muta, di Rina Schenfeld.

Ancora ossessioni architettoniche e formali per l’allestimento de Les Huguenots di Meyerbeer, messo in scena all’Opéra Bastille da Andreas Kriegenburg: il racconto dello scontro fra cattolici e ugonotti, culminato nella mattanza della Notte di San Bartolomeo, è articolato con tratto preciso e i riferimenti alla pittura fiamminga si fondono con un’attualità minacciosa e distopica, anche grazie ai costumi fantasiosi e colorati di Tanja Hofmann. Le candide, raffinate scene di Harald B Thor ricordano piuttosto la sede centrale di una banca ideata da un architetto alla moda, ma sono comunque funzionali.

Le complesse architetture musicali del «grand-opéra» ritrovano invece nel direttore Michele Mariotti, dopo le recite berlinesi di due anni fa, un interprete di sensibilità e gusto notevoli, ulteriormente affinati. E anche grande mestiere, vista le serie di defezioni che hanno perturbato la produzione.

Le prove migliori sono parse quelle delle signore, tutte in regola con la brillante scrittura belcantistica di Meyerbeer: Lisette Oropesa, elegante e bellissima Marguerite (con tanto di citazione Adjani nell’ultimo atto), l’accesa Valentine di Ermonela Jaho e Katerine Deshayes, bravissima come paggio Urbain. Yosep Kang, che ha sostituito a poca distanza dalla prima Brian Hymel, affronta con gusto e buona presenza la difficilissima parte di Raul, nonostante una sostanziale freddezza interpretativa. Nel resto della vasta distribuzione, non immacolata, spiccavano Nicholas Testé, Marcel e Elodie Hache, la zingara.

Ottima prova dell’orchestra ma soprattutto del coro. Sala piena e applausi convinti per un titolo mastodontico che, in epoca di serie tv interminabili diventa paradossalmente agile, a patto di saper tener chiuso il telefonino. E non sempre tutti ci riescono.