Il suo graffio fisico, dinamico, vibra in una danza dall’inconfondibile respiro cinematografico. Le sue creazioni, che siano concepite per uno spazio teatrale tradizionale, per set dal vivo non canonici, per film o anche streaming digitali come di recente con l’inglese Rambert Dance, elettrizzano rendendo la prospettiva di osservazione emotivamente tridimensionale. Sono lavori che trascinano l’occhio verso le molteplici angolature del materiale in movimento, come se anche chi guarda vivesse l’esperienza dall’interno dell’inquadratura.
È Wim Vandekeybus, coreografo, danzatore, regista, fotografo, filmmaker fiammingo, che, con la sua storica compagnia di Bruxelles Ultima Vez è atteso il 30 ottobre nella stagione di danza del Teatro Comunale di Ferrara per il debutto in prima mondiale di Hands do not touch your precious Me. Con Vandekeybus il Teatro Comunale di Ferrara ha un rapporto di lunga data: sono molte le creazioni coprodotte a partire dal 1991, la prima fu Inasmuch as Life is borrowed, un affondo sul senso della vita, tra le altre non si può non citare In Spite of Wishing and Wanting, conturbante spettacolo al maschile sul desiderio e la volontà, musica di David Byrne. Il film di questo secondo titolo, regia di Wim, è stato proiettato ieri nel Ridotto del Teatro, mercoledì 28 tocca a Here After, opera cinematografica tra fiction e danza su un tiranno e un infanticidio che si interroga sulla vita e la morte, il potere e la libertà. Hands do not touch your precious Me è il frutto di un incontro speciale tra Vandekeybus, l’artista visivo e performer Olivier de Sagazan, noto per le trasformazioni di sé con l’argilla, e la compositrice elettroacustica Charo Calvo. Nello spettacolo, oltre a Wim e Olivier, tra i danzatori c’è Lieve Meeussen, volto chiave da molti anni del lavoro di Ultima Vez.

«Hands do not touch your precious Me» è un verso tratto da una poesia dedicata alla dea Innanna. Quali gli elementi ispiratori di questa scelta?

La poesia è stata scritta dalla sacerdotessa Enheduanna alla dea Inanna intorno al 2500 a.C., in Mesopotamia. Una società matriarcale, in cui erano le donne ad avere il potere. Inanna è una dea della luce e del buio, modernissima nell’incarnare le contraddizioni di ogni uomo. Quando me ne ha parlato per la prima volta Charo Calvo, ne sono rimasto affascinato. Nel mito Inanna ruba al dio Enki, in cui mi incarno nello spettacolo, i «Mes», indicazioni per la civiltà incise in tavolette d’argilla, da cui imparare come tessere, scrivere, fare ceste, al di là del gender, del maschile e del femminile. Un tesoro per la civiltà da portare agli uomini. Questa storia si intreccia anche a un altro episodio del mito, la discesa di Inanna agli inferi per ritrovare la sorella Ereshigal, un viaggio che comporta l’accettazione della morte. Innanna deve spogliarsi di tutto, del suo potere, dei «Mes», dei suoi abiti, trasformarsi e morire per poter rinascere. Un tema da cui sono partito per il mio lavoro con Olivier de Sagazan.

Come è stata la collaborazione con Olivier e Charo Calvo e cosa le dà lavorare sugli antichi miti, ai quali spesso si è rivolto?

All’inizio Olivier pensava che potessimo anche fare a meno di una storia, che potessimo partire direttamente da noi, ma io volevo che ci incontrassimo a partire dall’esistenza di qualcos’altro da interpretare liberamente. Nelle contraddizioni che incarna Inanna trovo qualcosa di molto attuale, in cui mi riconosco e anche Olivier, nella sua drammaticità, lavora sulla sofferenza. Firmare una creazione legata al mito di una figura femminile e da parte di due uomini è interessante ai nostri giorni. Gli antichi miti, da cui spesso attingo, mi danno la possibilità di scrivere un’altra storia che non parte direttamente da me. Certo non è stato facile lavorare con la pandemia. In marzo, durante il lockdown, abbiamo cominciato con pochi danzatori alla volta, con tutte le precauzioni necessarie, ora lo spettacolo è pronto. Olivier è un performer di grande potenza, ha un segno più drammatico del nostro, lo studio era sempre pieno di argilla! Anch’io sono in scena questa volta, e con una piccola telecamera. Olivier si muove in proscenio, io riprendo cose che avvengono sullo sfondo e che proietto su una sorta di monolite. Un’immagine che viene fissata in scena, come la poesia di Enheduanna, una delle prime testimonianze di letteratura scritta della storia, incisa e perciò fissata nell’argilla con la grafica cuneiforme.

Wim Vandekeybus, foto di Filip Claessens

Anche Charo è in scena con voi?

No, anche se è stata una mia danzatrice anni fa. Charo è una designer elettroacustica, lavora con il suono, crea un universo non melodico, di grande atmosfera. La sua non è una musica facile, in tanti miei lavori ho avuto bisogno di musiche battenti, che in me spronano la danza in modo combattivo, ma Charo ha composto una partitura profondamente trasformista, che sento in sintonia perfetta con il lavoro di Olivier. Mi piace sperimentare. Negli anni Ottanta era una cosa normale rompere le consuetudini, oggi vedo più conservatorismo anche da parte di molti programmatori, sono preoccupati se ci sono anche dei testi, se lo spettacolo non è di sola «danza», ma a me piacciono le contraddizioni, l’oscurità e la luce: per questo mi sento vicino a Inanna che distrugge per ricreare.

Qual è per lei la relazione tra istinto e coreografia?

Ho bisogno di partire dal quadro completo. Non parto mai dai dettagli perché può capitarti di trovare qualcosa che in sé funziona ma non c’entra nulla con la visione d’insieme. Se invece hai il quadro complessivo nella tua testa trovi cose che non avresti mai immaginato, un cambiamento di ritmo, di qualità. Olivier è un artista che scrive moltissimo, mi ha mandato pagine di appunti, io invece devo andare in sala prova. Non lavoro mai su ciò che significa il dettaglio del movimento, che può essere diverso per ogni persona, lavoro su ciò che il movimento provoca, questo è per me l’istinto nella scrittura coreografica, un approccio che mi viene dal cinema.