Alla vigilia del suo insediamento come responsabile per la danza di tutti i tre teatri d’opera pubblici della città di Berlino, Sasha Waltz ha presentato a Roma – insieme Romeuropa – la sua ultima creazione, realizzata con la sua compagnia, Sasha Waltz & Guests, con cui aveva iniziato la propria storia di coreografa, e dove era tornata dopo l’esperienza per pochi anni alla direzione della Schaubühne a fianco di Thomas Ostermeier (partnership che non deve averla entusiasmata).

 

 

Giocare libera permette a Waltz di dare corpo alternativamente a tensioni diverse della sua ispirazione. Il pubblico romano ha ammirato da pochi mesi una sua creazione di una decina d’anni fa, Dido and Aeneas, di una folgorante, barocca contemporaneità e bellezza, pur in assoluta fedeltà a Purcell. Ma Roma ha conosciuto anche suoi lavori fondamentali, come l’indimenticabile Körper che percorreva l’umana materialità delle relazioni, e l’inquietante Zweiland che a fine anni novanta osservava quasi «a posteriori» divisioni e conflitti da trasformare in positività (forse le «due Germanie», o le «due Berlino», o magari maschile e femminile, insomma qualsiasi terreno «separato»).

 

 

È a questo filone di linguaggio che si lega ovviamente l’ultima invenzione dell coreografa dal titolo, come in quelle occasioni già programmatico, Kreatur (all’Argentina fino a stasera). Un’esperienza davvero creaturale, un grado zero di umanità che esce dal bozzolo dopo aver toccato, con gli occhi, le mani e il corpo tutto, rapporti e conflitti, illusioni ed effetti ottici, oggetti viventi e inanimati, luci siderali e buie cavità.
Quattordici danzatori, prima in formazione ridotta, poi tutti insieme, si raggruppano e si disperdono, si tentano e si ritraggono in una sorta di stato larvale che altera la loro apparenza, dalla tenuta nature (tutti in mutande color carne gli uomini, poco di più le donne) alle deformazioni ottiche e visionarie create dalle luci di Urs Schönebaum e dai vaghi rivestimenti di Iris van Herpen che ha firmato l’immagine di grandi star rock, ma qui si limita a bozzoli lanuginosi o a geometriche schermature per torace e bacino. Unica apparizione esplicita e riconoscibile, quella di un istrice umanoide che tocca e tenta il contatto con quei bozzoli animati.
È il momento di passaggio «puberale», in cui la danza dura di lanci e salti, di tecnica estrema e di sorprendente violenza mista quasi a paura, si trasforma in un rito di approccio all’altro. Esplicito, con molti baci sulla bocca, ma insieme «pudico» attraverso l’ironia inevitabile (è l’unico momento nei 90 minuti della performance) data dal commento musicale, appena deformato, della pietra miliare sull’argomento: Je t’aime moi non plus di Birkin-Gainsbourg.

 

 

Il suono di questo Kreatur è affidato ai Sandwalk Collective: dicono di aver registrato in giro per l’Europa suoni e rumori dei luoghi dove l’uomo ha lavorato (da una filanda italiana a una officina automobilistica tedesca), ma di fatto quello che accompagna l’avventura dei danzatori è un tappeto sdrucciolo di sonorità che possono riempire l’orecchio mentre gli danno l’avvertimento del vuoto assoluto circostante. Uno spettacolo duro, non gratificante eppure destinato a colpire e a rimanere nello spettatore che nel proprio intimo può riconoscere quello stato larvale da cui è tanto faticoso uscire.

 

 

Un’ esplosione di fisicità nello spettacolo di Waltz, che si capovolge nel vuoto, anzi nell’assenza di attori nell’altro titolo che Romaeuropa festival propone in tandem con Short Theatre, Nachlass (all’India ancora oggi, con repliche successive a partire dalle 16,30). I Rimini Protokoll sono maestri riconosciuti del nuovo teatro. Qui, nelle cabine dove ascoltano storie di persone che hanno deciso di morire, gli spettatori sono soli tra loro. E questo impedisce il nascere di un circuito di reazioni e di «interferenze» che sono solitamente il risultato più affascinante del lavoro del gruppo berlinese.