Lo stato confusionale, molto vicino allo sbando, in cui versa il governo viene messo plasticamente in scena nel vertice del pomeriggio a palazzo Chigi, quello che dovrebbe segnare un passo avanti sulla strada dell’accordo con l’Europa. Ci sono il premier e i vicepremier. Non c’è il ministro dell’Economia. Uno dei passaggi finali di questa vicenda delicatissima, con all’orizzonte la terza recessione e con lo spread che sull’onda della nuova crisi tra Usa e Cina è tornato a sfiorare i 300 punti, lo affrontano un avvocato e due leader politici senza il responsabile dell’Economia.

LA SPIEGAZIONE UFFICIALE è risibile: la presenza di Tria, assicura Di Maio, non era necessaria giacché si discuteva solo di emendamenti. La spiegazione ufficiosa non è meno surreale: andavano prese decisioni politiche, sulla base delle quali consultare poi il ministro perché le traduca in pratica. Una commedia dell’assurdo messa in scena da registi ebbri. Il vero punto dolente trapela ormai da giorni.

Proprio Tria, che in settembre si era battuto sino all’ultimo e invano perché nel Def figurasse un deficit accettabile per Bruxelles, oggi, in un quadro profondamente cambiato dall’incombere di una fase recessiva, ritiene che le raccomandazioni europee andrebbero accettate per quanto riguarda lo spostamento di fondi sugli investimenti, ma senza diminuire il deficit perché altrimenti sarebbe impossibile varare misure anticicliche, tali da evitare la recessione. Proprio come in settembre le preoccupazioni politiche, stavolta di segno inverso rispetto ad allora, fanno però premio su tutto. Martedì prossimo, all’incontro con Juncker, Conte vuole presentarsi con una proposta che possa essere accolta dalla Ue o che, nella peggiore delle ipotesi, possa almeno essere sbandierata come prova provata della buona volontà italiana a fronte di una incomprensibile rigidità europea. Dunque il deficit deve essere sensibilmente abbassato.

QUANTO SENSIBILMENTE? Inutile chiederlo ai governanti. Non è che non vogliano dirlo. E’ che non lo sanno neanche loro. Il «numerino» che continua a circolare è il 2%: non è detto che a Bruxelles basterebbe. La commissione chiede l’1,9%, c’è chi insiste per scendere ulteriormente: i paesi del Nord capitanati dall’Olanda e i commissari che di quei Paesi portano voce e interessi in commissione. Come non è detto che a Bruxelles basti un ridimensionamento del deficit previsto senza interventi qualitativi. Ma i problemi principali, per ora, il governo gialloverde li ha al proprio interno. Deve quadrare un cerchio e sembra impossibile. Deve rivedere le previsioni non solo per il prossimo anno ma per l’intero triennio, come ha ammesso Conte, e deve farlo senza pagarne lo scotto sul fronte della propaganda, cioè senza rinunciare a reddito di cittadinanza e quota 100, o almeno non visibilmente.

LA MATEMATICA non lo permette. Uscito dal vertice Di Maio ha promesso che ci saranno le stesse misure «ma con meno fondi». Senza modificare la tempistica, che sarebbe una strada sia pur un po’ truffaldina per risparmiare: «Quota 100 e l’aumento delle pensioni minime partirà a febbraio, il reddito a marzo». Senza modificare la platea; parola di Salvini e Di Maio. Senza togliere fondi: oltre un taglio di 3 miliardi nessuno dei due vuole andare.

E allora? Un po’ il vicepremier si arrampica sugli specchi: «L’Europa chiede di abbassare il debito e noi lo faremo con gli investimenti pubblici e aumentando la domanda interna». Lo stesso Di Maio si rende conto che a Bruxelles una tesi del genere suonerebbe come una presa in giro. Ma se non si può procrastinare l’entrata in vigore delle «epocali» riforme, causa imminenti elezioni europee, le si può in compenso rendere transitorie. «Il reddito di cittadinanza non è pensato per durare anni. In Europa dura mesi», dice infatti Di Maio e quasi viene da chiedersi se si rende conto di cosa sta dicendo. Dopo quota 100 anche il reddito diventerebbe una misura temporanea: «Spero di trovare lavoro a quelle persone prima dei tre anni». E’ un’ipotesi, come lo è quella, opposta, di far saltare il tavolo all’ultimo momento. Più di questo, a pochi giorni dall’ora X, il governo non dispone.

COME SEMPRE nei momenti di difficoltà il governo ripiega sui cavalli di battaglia propagandistici. Dopo l’ennesima mazzata leghista sull’immigrazione, arrivano le «pensioni d’oro» dei 5S: «Passeremo da un taglio previsto del 25% al 40%», tripudia l’uomo che doveva «cancellare la povertà» e che si accontenta invece di impoverire ulteriormente i ceti medi. Spunta anche un’ideuzza furba per l’allocazione dei Btp: perché non pagare proprio con i Btp i premi di dipendenti pubblici? I conti, in casa 5S, si risanano così. Senza bisogno di correre rischi nelle aste.