La Libia è sempre un cimitero per migranti. È di almeno 36 morti il bilancio del naufragio di un barcone, partito dalle coste libiche e diretto verso l’Italia. I cadaveri sono stati recuperati nella notte tra domenica e lunedì. Il portavoce della marina libica, Ayoub Kassem ha confermato il salvataggio di 52 migranti. I sopravvissuti hanno riferito della presenza di almeno 142 persone nell’imbarcazione affondata. Se questo numero venisse accertato il numero delle vittime potrebbe essere molto più alto. I migranti provenivano da Mali, Cameroon, Ghana, Gambia e Burkina Faso. L’imbarcazione è stata avvistata dalla Guardia costiera a quattro chilometri dalla città di Garabouli. «Gli scafisti ci avevano chiesto 1300 euro per un viaggio di sola andata», ha spiegato Moussa, maliano scampato al naufragio.

Nelle ultime settimane sarebbero oltre cento i migranti morti nelle acque territoriali libiche nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Lo scorso 30 aprile, la Guardia costiera libica ha denunciato alle Nazioni unite il ritrovamento di un relitto con un unico superstite di nazionalità somala che ha riferito della presenza di altre 40 persone a bordo. Due giorni dopo, in un avvistamento simile, sono stati salvati ottanta migranti, di origine eritrea, somala ed etiope, mentre quattro corpi sono stati ritrovati senza vita. Per questo, il ministro dell’Interno pro tempore, Salah Mazek ha minacciato che le autorità libiche potrebbero stracciare gli accordi internazionali sui flussi migratori «favorendo il transito verso l’Europa» in assenza di interventi da parte dell’Unione.

Non solo, sono sempre attivi i centri di detenzione. Molte di queste prigioni, in cui sono stipati centinaia di migranti in condizioni di miseria e abbandono, sono sotto il controllo di milizie filogovernative, accusate da organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani di tortura e maltrattamenti. Le insensate politiche anti-migratorie libiche hanno previsto per anni respingimenti sistematici nel deserto del Sahara. I report di Amnesty International hanno documentato piccoli grandi esodi correlati da testimonianze di stupri e uccisioni perpetrati dall’esercito libico. Viaggi senz’acqua e cibo che hanno riempito il deserto di scheletri.

Ma la Libia del post-Gheddafi continua ad essere un incubo per i migranti soprattutto in seguito alla decisione del governo islamista di Ali Zeidan di stracciare l’accordo con il governo del Sudan che prevedeva una forza congiunta per la sicurezza delle frontiere tra i due Paesi africani. L’ex ministro della Difesa libico, il colonnello Abdul Raz–zaq al-Shihabi, per controllare la frontiera con il Sudan, ha puntato sulla cooperazione con il governo italiano per una copertura satellitare dell’area.

Il colonnello Gheddafi aveva siglato un accordo con le autorità italiane, criticato dalle associazioni locali per la difesa dei diritti umani, che prevedeva il ritorno in Libia dei migranti dove venivano arrestati o deportati verso il loro paese di origine. Non hanno portato a molto neppure i contatti delle fragili autorità libiche con il governo nigeriano per mettere in sicurezza la frontiera sudoccidentale del Paese.

Le coste libiche sono la strada più semplice per l’Europa per scafisti e contrabbandieri. Il numero di migranti che ha tentato di lasciare il paese negli ultimi anni è andato crescendo con gli attacchi della Nato nel 2011 e l’uccisione violenta del colonnello Muammar Gheddafi. Da allora la Libia è precipitata in una spirale di insicurezza. Milizie armate sono attive in tutto il paese. Le esportazioni di petrolio sono crollate mentre i terminal petroliferi sono sotto il controllo dei separatisti della Cirenaica. Cresce il contrabbando, soprattutto di armi trafugate, e la giustizia fai da te, mentre le istituzioni costruite nel post-Gheddafi appaiono estremamente fragili. I miliziani hanno assaltato ripetutamente il parlamento e costretto l’ex premier a fuggire dal paese dopo la vendita illegale di greggio alla petroliera nordcoreana Morning Glory. Al momento la Libia non ha un esecutivo, è in corso il timido tentativo di sostenere la candidatura dell’imprenditore Ahmed Maiteg, nominato la scorsa settimana dal Congresso tra mille polemiche. Non solo, la scadenza naturale del parlamento è stata prolungata fino alla fine dell’anno, provocando non poche contestazioni a Tripoli e Bengasi.