L’operazione è quasi compiuta. Sta riuscendo il tentativo di chiudere la transizione italiana con la ristrutturazione del sistema politico in senso compiutamente americanizzante, per certi versi post-politico, cioè caratterizzato da un assenza assoluta di alternative e da una diffusa rassegnazione nichilista. Da un’omologazione dello spazio politico e culturale che lascia vivere solo piccole variazioni sul tema.
Lo dimostra la vittoria di Renzi alle primarie: la mutazione culturale dei vertici ha raggiunto la base. Si vota Renzi perché «così si vince», perché «non c’è nient’altro» (a sinistra), o «per mandarli tutti a casa». Da un lato, la sua vittoria dimostra la continua crescita del processo di assorbimento della politica nella comunicazione. Schiacciata tra questo assorbimento e la sua subordinazione ai poteri economici, la dimensione politica diventa quasi impercettibile ed è considerata, quindi, inutile. Dall’altro, la crisi dei partiti non impedisce a quelli principali di diventare i monopolisti della politica, sempre più forti nei confronti della cosiddetta “società civile organizzata” e dei movimenti, con cui possono limitarsi a usare un mix di indifferenza e repressione. Provocando un cortocircuito tra politica, antipolitica e populismo. La politica-comunicazione scava un fossato con la società. Il tentativo di colmarlo – almeno in modo immaginario – acquisisce la forma del populismo. La politica ufficiale, a sua volta, recepisce di questo populismo gli elementi più utili al governo liberista della società: la Casta è l’avversario comune a Renzi, a Grillo e ai “Forconi”.
In questo contesto, la sinistra è stata eliminata prima dal Parlamento e poi dalla scena politica. Quella che in Parlamento c’è (Sel), è ridotta alla stessa irrilevanza di quella che non c’è. Non basta stare lì per affermare una presenza. L’idea di ricostruire un centrosinistra («riaprire la partita»), è finita un quarto d’ora dopo che il centrosinistra si è seduto in Parlamento. Una velocità di dissoluzione da record, anche rispetto ai passati governi Prodi. Ancora più sorprendente, però, perché questa volta la componente di sinistra aveva subordinato all’alleanza le ragioni della sua esistenza. Perché ciò che è successo con il Pd di Bersani dovrebbe essere evitato con il Pd di Renzi?
L’evoluzione del Pd mostra non solo che un centro-sinistra non è attualmente possibile, ma che, probabilmente, non è mai stato possibile. Perché il Pd costituisce in gran parte la classe dirigente italiana. L’unica componente «affidabile» del sistema politico. In questa fase significa essere il garante delle oligarchie industriali e finanziarie e delle tecnocrazie europee. La funzione del Pd è quella di poter chiamare «sinistra» non solo qualcosa che non lo è, ma qualcosa che serve a impedire che una sinistra forte esista.
È esemplare, in questo senso, il modo in cui questo partito ha lavorato a chiudere la fase di potenziale cambiamento che si era aperta due anni fa, con i referendum e l’elezione di sindaci di sinistra in alcune grandi città. Ed è esemplare il fatto che faccia molta meno fatica a fare una Finanziaria con Alfano e Cicchitto di quanta ne facesse con Rifondazione.
È comunque difficile immaginare per il Pd di Renzi il trionfale cammino che i principali mezzi di comunicazione, interessati, prospettano. La logica maggioritaria, che attraverso le primarie si è diffusa nel Pd, vuole che un secondo dopo la proclamazione del segretario chi ha perso cominci a boicottarlo, creando un costante movimento di autodissoluzione. È possibile che anche la parabola di Renzi sia veloce come tutte le attuali parabole mediatico-personali. E non è affatto scontato che vinca le prossime elezioni. Ammesso e non concesso che guadagni voti a destra, incentiverà l’astensionismo di sinistra (si sa, invece, che vince le elezioni chi riesce a limitare l’astensionismo della sua parte).
Nonostante il poco brillante spettacolo che da di sé e il progressivo spostamento verso una sorta di «lepenismo con altri mezzi» (o, magari, proprio per questo), il favorito per le prossime elezioni politiche è invece il Movimento 5Stelle. La crisi di sistema che si è aperta ad aprile, quando mancava un governo e non si riusciva a eleggere il Presidente della Repubblica, è congelata dal governo Letta, ma la crisi di autorità della politica si è perfino radicalizzata.
L’inerziale trascinamento della vita del governo serve a rimandare il redde rationem della crisi sistemica e a prendere tempo, facendo cuocere il M5S nelle sue ambiguità. Ma il M5S sarà, tra le forze politiche presenti in Parlamento, l’unico che nella prossima campagna elettorale avrà qualcosa da dire.
D’altra parte, il Pd e Repubblica hanno poco da gridare al populismo eversivo di Grillo. Pd e 5 Stelle sono «gemelli diversi». Entrambi avversano il conflitto e la mobilitazione collettiva, tendono ad assorbire la dinamica sociale nello spazio istituzionale e a riassumere al proprio interno tutte le posizioni politiche, sono elettoralistici, leaderistici, più vicini all’impresa che al lavoro.
Il futuro del Movimento 5Stelle dipende però anche dal fatto che si sviluppi un’alternativa di sinistra. Da questo punto di vista, non si può più dire che in Italia non ci sia mobilitazione sociale. Ci sono state le manifestazioni della “Via Maestra”, dei sindacati di base, dei movimenti per la casa e per la difesa del territorio, degli studenti, della Val di Susa, della Terra dei Fuochi. La lotta di Genova. Esperienze importanti come quella di “Un’altra musica in Comune”. Ci sono categorie della Cgil, come la Fiom e la Flc, che si aprono all’innovazione dei contenuti e delle forme dell’agire sindacale. Ma tutto questo rimane per ora «sociale», un sociale da cui la politica ufficiale riesce sempre a immunizzarsi.
È necessario, invece, e urgente, che questo sociale diventi politica. Siamo nel momento storico in cui è possibile sperimentare la costituzione di organismi che superino la separatezza tra partiti, movimenti, associazioni, comitati. Che provino a connetterli stabilmente garantendo allo stesso tempo unità d’azione, continuità e pluralismo. È il momento in cui è possibile, oltre che necessario, superare le opposizioni tradizionali e più recenti della sinistra. Nelle forme di azione, quelle tra auto-organizzazione e organizzazione, tra mobilitazione e tattica, tra spontaneità e strategia, tra conflitto e azione istituzionale. Nei contenuti, quelle tra lavoratori garantiti (nessuno più lo è più) e precari, tra operai e lavoratori della conoscenza, partite Iva, «autonomi di seconda generazione» (tutti impoveriti e precarizzati dalla crisi), tra beni comuni e politica statale, tra sviluppo produttivo e «filiera corta».
Sono opposizioni datate, costituite da elementi tutti necessari, che vanno conciliati in una nuova forma dell’azione collettiva e in nuovo paradigma culturale, per opporre al “tutto” della società mercificata un “tutto” di segno contrario, che sia nello stesso tempo di parte e capace di parlare a chiunque subisca le forme contemporanee del dominio, della subordinazione e dell’impoverimento. Va costruita una forza, una coalizione, che non abbia immediati obiettivi elettorali, che non abbia l’esigenza di eleggere un ceto politico, che cresca nei tempi e nei modi necessari a consolidarsi ma che non escluda di oltrepassare quelle che Revelli chiama “le mura di Bisanzio”.