Magari l’opposizione in Italia fosse quella che descrive Giorgia Meloni: una falange compatta e possente, capace di martellare su ciascuna delle «cose di buon senso» fatte dal governo. Ma anche di allestire campagne scandalistiche, dossieraggi, «inchieste durate mesi su amici e parenti». Ma «noi non abbiamo tempo per giocare con loro alla lotta nel fango: siamo impegnati a volare alto», asserisce sdegnosa la premier. Poi si libra accusando l’opposizione di allearsi con lo straniero pur di danneggiare il governo: vette elevate.
MELONI PARLA all’Assemblea nazionale del suo partito. Gioca in casa, nessuno si permetterebbe di disturbare la manovratrice. Non il discusso grande vecchio Ignazio La Russa, che generosamente rinuncia a presiedere le assise per non offrire il destro a polemiche. Non l’oppositore Fabio Rampelli, che si commuove «per il successo del governo» e magnifica le doti della «bravissima» sorella Arianna. La cui nomina era stata pur criticata dalla sua corrente ma si faceva per ridere. Qui la premier si può permettere di ironizzare sul saluto romano passando dal braccio destro al sinistro, «Forse è meglio questo». Strizzatina d’occhio alla platea e applauso scrosciante.
La premier dosa in egual misura l’immancabile vittimismo, quello appunto che trasforma l’innocua opposizione in un mastino indomato, e l’altrettanto consueto trionfalismo, fiera di questi «mesi incredibili che rimarranno per sempre scolpiti nella memoria». Rivendica tutto: il decreto Rave, che tutti definivano inutile, ma da allora di rave illegali non ce ne sono stati più, la politica estera, che ha donato al Paese «maggiore credibilità e centralità internazionale», l’economia che vanta legioni di occupati e un Pil comunque migliore del resto d’Europa, la tassa sugli extraprofitti, criticata da chi non aveva avuto il coraggio di farla e già che se ne parla arriva anche un monito preciso: «Vi invito a difenderne la finalità nel corso della conversione». Anche se parlare di «finalità» significa in realtà prepararsi a rivederne i dettagli, forse di parecchio.
ANCHE I FALLIMENTI, o sono tali solo a prima vista oppure sono responsabilità dei governi precedenti. Il decreto Cutro, per esempio, capitolo spinoso perché è sul fronte dell’immigrazione che monta la delusione dell’elettorato di destra: «Speravano in risultati immediati ma a me non interessano soluzioni effimere: voglio risolvere in modo strutturale». O i quattro soldi per la manovra: tutta colpa «dei nostri predecessori che hanno buttato miliardi dalla finestra per tentare di comprare il consenso». Bilancio smagliante e avanti tutta.
Eppure in questa raffica di complimenti a se stessa e di anatemi lanciati alla cieca sull’opposizione c’è una nota stonata, anzi stridente. Dai toni della trionfatrice si evince preoccupazione, non sicurezza. Lo stesso attacco all’opposizione è troppo sopra le righe per non suonare sospetto. L’allarme rosso a un certo punto risuona apertamente: «Non abbiamo ancora visto niente. La partita che si apre è più dura di quella alle spalle. Il dibattito politico sarà più feroce, gli attacchi, le trappole, i tentativi di disarcionarci si moltiplicheranno».
Non è solo un modo per chiamare la sua coalizione a raccolta e non è neppure il solito proverbiale vittimismo. Giorgia Meloni, con il vento dei sondaggi in poppa, una presa saldissima sulla leadership del governo, del partito e della maggioranza, si sente assediata davvero e lo è. Non da Schlein e Conte ma da contingenze difficilissime che la sua squadra, non precisamente composta da campioni, non è in grado di affrontare. L’autunno sarà difficilissimo, il 2024 molto peggio.
LA RICETTA DELLA PREMIER è modesta, anzi inesistente. Un invito a serrare i ranghi. La scelta di mantenere le redini del partito nelle sue mani restando presidente «fino a quando non deciderete di sostituirmi» col congresso solo dopo le elezioni europee. La delega ai fedelissimi: Giovanni Donzelli incaricato di riorganizzare il partito, Giovanbattista Fazzolari capo anche della comunicazione, «dovevo nominare Formigli?» , Arianna, che «milita da quando aveva 17 anni ed è stata sempre penalizzata perché mia sorella». Un monito agli alleati perché, anche con le europee alle porte, restino «consapevoli del vincolo di coalizione».
Ma di quel che davvero assedia il suo governo e che minaccia di espugnarlo, la guerra di cui proprio lei è gran paladina e l’austerità alla quale si è piegata, Giorgia Meloni non parla. Forse perché non saprebbe cosa dire.