L’ennesima scissione del Pd, da anni vagheggiata e minacciata da Renzi, occupa i talk show manu militari, appassionando moltissimo i commentatori politici. Ma c’è da dubitare che nel mondo al di fuori di essi si condivida una importanza così cogente.

L’uomo della strada sarebbe con probabilità assai più interessato alle crisi riguardanti il settore che secondo diverse rilevazioni demoscopiche è il primo nelle preoccupazioni degli italiani: il lavoro. Varie fonti concordano sul fatto che il successore di Di Maio al Ministero dello sviluppo economico dovrà occuparsi di circa 150 scenari di crisi aziendali riguardanti circa 250mila posti di lavoro.

Uno scenario in parte ereditato dal governo gialloverde: secondo una inchiesta del Sole 24-Ore un singolo dossier dura in media 28-30 mesi. Con tavoli che sembravano chiusi ma in realtà non lo erano.

Quando Luciano Gallino nel 2003 indicò come uno dei problemi principali del declino industriale italiano la finanziarizzazione delle aziende lanciò un tema ignorato allora e sostanzialmente oggi, anche dopo la crisi del 2007-08. La questione che si pone su questo piano consiste nelle trasformazioni del governo d’impresa di una dirigenza che intenda «fare profitti senza produrre» (come suonava uno studio di qualche anno fa).

Guardando i nomi delle aziende coinvolte emergono diversi nomi in salsa finanziaria: Bekart è un gigante belga quotata in Euronext (la borsa europea); Whirlpool multinazionale Usa; Medtronic-Invatec colosso della tecnologia medica Usa ma con sede legale a Dublino (classico espediente fiscale).
Quest’ultima presenta un caso da scuola, in quanto la notizia che mentre chiudeva lo stabilimento in Italia (stabilimenti di Torbole e Roncadelle, Brescia) aveva aumentato la remunerazione degli azionisti suscitò umori piuttosto cupi al suo arrivo.

Ma si tratta di un meccanismo classico per cui si sfronda la parte di produzione materiale per accrescere quella che comporta profitto finanziario puro: vendita di obbligazioni, fusioni e simili.

I due fenomeni che stanno alla base di tale mutamento sono da un lato l’ampliamento delle attività finanziarie trattate dalle imprese rispetto al loro bilancio complessivo; dall’altro la liberalizzazione dei movimenti di capitali che apre la strada ad ogni tipo di operazione, in quanto l’offerta di opzioni si allarga oltre l’orizzonte nazionale ed il potere regolativo dello Stato viene diminuito.

Le strategie aziendali conseguenti consistono nel volgersi in prima istanza ai mercati finanziari, modulando in relazione ad essi anche le decisioni in merito alla produzione reale.

Produzione che agli alti vertici si fatica sempre di più a capire nella sua concretezza, dato che si tende a sostituire manager competenti nella produzione con altri più esperti nelle pratiche finanziarie. Un esempio popolare è quello del film Wall Street del 1987 in cui il malvagio Gekko compra una compagnia di cui ignora totalmente i processi produttivi.
Le conseguenze, come indicano gli studi del professore Angelo Salento, comportano un calo delle retribuzioni e un aumento della diseguaglianza. E difficilmente può essere diverso dato che strutture materiali e lavoratori non sono che una zavorra da tenere se serve o di cui liberarsi velocemente se le correnti ascensionali sono favorevoli a librarsi verso i cieli tersi del profitto finanziario.
Chiaramente non tutti i problemi e le crisi attuali sono unicamente determinati da queste dinamiche.
Ma si tratta di un modello verso cui si vanno incamminando sempre più imprese e che quel che si sviluppa in seno alla Ue – già catastroficamente responsabile di una decisa torsione finanziaria – non potrà che incrementare tale processo, se una robusta opposizione popolare non vi si oppone.