La notizia dell’ennesimo naufragio a poche miglia da Lampedusa ci impone una riflessione seria sulla sostenibilità etica e morale delle nostre politiche migratorie. Non possiamo più chiudere gli occhi su quanto sta accadendo nel Mediterraneo centrale.

La dismissione dei dispositivi di soccorso europei, l’accanita criminalizzazione del soccorso in mare insieme alla limitazione dell’operatività delle Ong sta determinando una sostanziale sospensione del Diritto internazionale ad opera dei governi europei, in particolare delle convenzioni a tutela della difesa della vita in mare e dei diritti umani.

Ritengo che abbia centrato il punto la Presidente del Pd Valentina Cuppi quando, qualche giorno fa, richiamava il Pd e le forze del campo progressita alle proprie responsabilità rispetto ad una politica migratoria che si fonda sull’esternalizzazione della frontiera (e il cui scopo è il contenimento dei flussi), che chiude gli occhi sulla drammaticità delle condizioni sulla terraferma dall’altra parte del Mediterraneo.

Considerare la Libia come un porto sicuro, organizzare e coordinare i soccorsi di una organizzazione criminale come la guardia costiera libica con l’obiettivo di deportare donne, uomini e bambini nello stesso inferno dei lager libici da cui sono fuggiti, comporta una corresponsabilità grave nella sistematica violazione dei diritti umani che avviene in quei luoghi, testimoniate da diversi rapporti delle Nazioni Unite e delle Ong presenti sul campo.

L’ultima in ordine di tempo è la drammatica denuncia di Medici senza Frontiere che pochi giorni fa ha reso pubblica la necessità di sospendere le attività in due centri di detenzione a Tripoli. Drammatico il comunicato che sottolinea ‘ripetuti episodi di violenza contro migranti e rifugiati’ oltre alla mancanza delle condizioni di sicurezza per il proprio personale. La vita nei lager libici è spaventosa: stupri, abusi quotidiani, violenze, torture.

Dai report delle organizzazioni che faticosamente operano sul campo e che si sommano alle diverse inchieste giornalistiche, emerge un quadro drammatico. Davvero pensiamo di poter continuare a delegare alla Libia la gestione dei flussi migratori, di casi vulnerabili, di donne, uomini e bambini detenuti e i cui diritti vengono quotidianamente violati?

Siamo consapevoli, ne conosciamo i dettagli, abbiamo migliaia di testimonianze. Ciononostante continuiamo a promuovere e a sostenere politiche disumane che contemplano respingimenti illegali, abusi e violenze.

Sappiamo per esempio che a gestire i centri detenzione ci sono persone come Rahman al Milad detto Bija, noto trafficante di esseri umani, tra i capi della guardia costiera di Zawiya, sotto inchiesta per crimini contro l’umanità e che, dopo una brevissima detenzione, è stato promosso al grado di maggiore della Guardia costiera libica.

Non può non riguardarci la condizione di vita delle donne e delle bambine stuprate nei centri di detenzione in Libia. Non può non riguardarci la disumanità del contenere e respingere chi cerca di fuggire dall’inferno. Abbiamo il dovere di invertire la rotta per difendere la civiltà giuridica dell’Europa.

Dobbiamo ripristinare, ora, un dispositivo europeo di soccorso in mare sul modello di Mare Nostrum e interrompere immediatamente il finanziamento alla cosiddetta Guardia Costiera libica gestita dagli stessi trafficanti. Dobbiamo sostenere la Libia nel suo processo di stabilizzazione senza appaltargli la gestione della nostra frontiera.

Dobbiamo pretendere la chiusura di tutti i campi di detenzione ed evacuare le circa 6000 persone che vi sono detenute con corridoi umanitari che devono diventare una strutturale via di accesso legale verso l’Europa per tutti coloro che fuggono da condizioni di guerra e di violazione dei propri diritti.

È da questo che dipenderà la qualità della nostra democrazia e il livello di civiltà della nostra società. È su questa sfida che l’Europa ritroverà una sua identità e dal modo in cui saprà affrontarla dipenderà il suo, il nostro, futuro.