A meno di 24 ore dal suo giuramento, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato la squadra di 16 ministri che costituiranno il familiare cerchio esecutivo che ruoterà attorno a lui. Dei precedenti ministri, solo tre restano in sella.

Il ministro della giustizia Abdulhamit Gul, fautore delle purghe dell’apparato statale e nella società civile in seguito al tentato colpo di Stato, compresa la destituzione di migliaia di giudici che ha, di fatto, annullato l’indipendenza del sistema giudiziario turco.

Poi il ministro dell’interno Suleyman Soylu, la cui permanenza significa la continuazione della repressione di tutte le opposizioni al regime presidenziale. E che a pochi giorni dalle elezioni annunciava: «Non esiste alcun partito chiamato Hdp, esiste una mentalità chiamata Pkk e l’Hdp ne è l’implementazione» (il primo allarmante segnale che apre le porte alla messa in stato di illegalità del partito della sinistra filocurda in Turchia).

Resta anche il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu, che ha dichiarato sibillinamente che d’ora in poi «non vi sarà più distinzione tra politica interna ed estera». Interpellato sulla sparizione del ministero per gli affari europei, assorbito dagli esteri, dichiara di voler insistere sul processo di adesione all’Ue «nonostante le difficoltà».

Tra i nuovi, la nomina più attesa era quella del nuovo superministero del tesoro e della finanza, finito in mano al genero Berat Albayrak, in precedenza ministro dell’energia. A fargli posto la precedente squadra dell’economia composta da Mehmet Simsek, Naci Agbal e Nihat Zeybekci, che non hanno trovato posto neppure in parlamento. Il segno di un’epurazione riuscita contro i più market-friendly tra gli uomini di Erdogan.

Le opposizioni non hanno digerito la nomina di Albayrak, considerato il delfino erede di Erdogan, l’uomo con in mano le casse del partito (e della famiglia), invischiato in scandali come i Panama Papers. Che sta cercando di far passare sotto silenzio a colpi di magistratura, come denunciano Reporter senza Frontiere Turchia e il sindacato dei giornalisti.

Il deputato Hdp Garo Paylan ha attaccato: «Neppure in epoca ottomana sono esistiti sultani con l’ardire di mettere un proprio genero al tesoro». Ma la nomina è stata mal digerita soprattutto dai mercati, che vedono in Albayrak un falco inaffidabile. La lira ha subito accusato il colpo con un nuovo tonfo nei confronti di dollaro ed euro.

A complicare il quadro dell’economia c’è uno dei nuovi decreti esecutivi che porta sotto il controllo presidenziale i vertici della banca centrale. Erdogan ne sceglierà presidente, vice e membri del consiglio di politiche monetarie.

I mercati attendono la prima decisione della banca centrale per giudicare, ma l’indipendenza della banca centrale è a rischio. L’Associazione degli industriali Tusiad ha emesso un cauto comunicato dove ricorda che «lo stato di diritto e l’indipendenza dei supervisori, specialmente della banca centrale, sono di vitale importanza». Ma il dado è tratto.

Tra le altre nomine ministeriali spicca quella di Hulusi Akar, il generalissimo che ha guidato la purga post golpe nell’esercito e che ora diventa ministro della difesa. Fuat Oktay, una delle menti dietro il nuovo sistema presidenziale, si è guadagnato la vicepresidenza.

Tra i ministri anche molti imprenditori vicini al governo: alla sanità Fahrettin Koca, proprietario del gigante del settore Medipol; all’educazione Ziya Selcuk, già ministro in passati governi e noto proprietario della catena di scuole Maya Okullari; al turismo il Mehmet Ersoy a capo del colosso vacanziero Etstur.

C’è spazio anche per Bekir Pakdemirli che, candidato Akp a Smirne, non ce l’ha fatta a diventare parlamentare, ma è riuscito ad avere il ministero dell’agricoltura e ha così commentato: «L’ho saputo anche io ieri, sono sorpreso».