Vi è una frattura netta, una sorta di faglia politica, che divide il continente americano. Da una parte gli Stati uniti, il suo “ministero delle colonie”, l’Organizzazione degli Stati americani (Oea), col suo nocciolo duro formato dai governi di destra, Brasile, Colombia, Honduras, Perù al quale si è aggiunto, con lo zelo dei neofiti, l’Ecuador del presidente Lenín Moreno. Tutti impegnati a colpevolizzare Evos Morales e la sua «sete di potere» del caos in cui è precipitata la Bolivia: per loro non vi è stato alcun golpe, solo una «giusta reazione» del popolo contro «i brogli elettorali»; polizia e Forze armate sono fedeli alla Costituzione e l’opposizione ora ha il compito «di riportare la democrazia in Bolivia» mediante «una corretta via elettorale». E anche sull’autoproclamazione di Jeanine Áñez come presidente ad interim non hanno da eccepire.

Dall’altra vi è un ristretto gruppo di paesi con governi progressisti: Venezuela, Cuba, Nicaragua, Messico e Uruguay, i quali condannano «il colpo di Stato che si è consumato in Bolivia».

Il governo messicano ha concesso asilo politico all’ex presidente Morales perché considera «in pericolo la sua vita». Nel corso di una conferenza stampa il ministro degli Esteri messicano, Marcelo Ebrad, ha ribadito che quanto avvenuto in Bolivia «è un golpe perché l’esercito ha chiesto la rinuncia del presidente e questo violenta l’ordine costituzionale della Bolivia». Il presidente Andrés Manuel López Obrador – al quale hanno chiesto se temeva una reazione degli Stati uniti – ha confermato che il Messico «è un paese libero e sovrano» che agisce in base «a una politica di principi riconosciuti» e «per questo è rispettato».

In una posizione ambigua è l’Argentina dove per ancora un mese convivono due presidenti, quello in carica, Maurizio Macri, che «non vede elementi per definire un colpo di Stato» quanto accade in Bolivia, dall’altra il presidente eletto Alberto Fernández, il quale ha condannato «il golpe perpetrato contro il presidente Morales che aveva convocato un nuovo processo elettorale».

È un quadro che fotografa la mappa politica attuale delle Americhe. Al quale però è necessario aggiungere un fattore che è politicamente strategico: i grandi mass media, schierati a favore della narrazione per cui Evo Morales «ha rinunciato» alla presidenza a seguito della pressione popolare indignata a causa «della frode elettorale» denunciata dalla Oea. Si legge (agenzia Efe) che «l’uscita di Evo Morales getta la Bolivia nel caos» come se fosse responsabilità dell’ex presidente che vi sia stato un golpe. Gli episodi di resistenza al colpo di Stato, specie delle popolazioni indigene, vengono descritti come «episodi di violenza di turbe che attaccano in periferia». Le forze di polizia e le Forze armate – la prima direttamente coinvolta negli episodi di violenza contro i leader del partito maggioritario Movimento al socialismo e contro lo stesso presidente Morales – vengono ora descritti come garanti della democrazia e impegnati « a frenare il vandalismo». Naturalmente i vandali sono quelli che si sono pronunciati contro il golpe e a difesa del presidente costituzionale.

Il quotidiano El País fa una sorta di bilancio e mette in risalto la dichiarazione del presidente Donald Trump il quale afferma che «la rinuncia di Evo invia un forte messaggio ai regimi illegittimi di Venezuela e Nicaragua». E a Cuba naturalmente, anche se The Donald ha avuto il pudore di non considerare illegittimo il governo di Díaz-Canel. Legittimo forse, ma ugualmente da abbattere in quanto – secondo la Casa bianca – impegnato a sostenere il «dittatore» Nicolás Maduro e «direttamente implicato» in quelli che gli Stati uniti considerano movimenti sovversivi in Ecuador e Cile.

Paese cerniera dell’America del Sud, negli ultimi anni la Bolivia era rappresentata come una sorta di Cina latinoamericana, con una crescita attorno al 7%. Un paese fino a pochi giorni fa retto da un governo progressista che aveva saputo assicurare stabilità e progresso, usando le materie prime per finanziare programmi sociali, garantendo i diritti delle popolazioni indigene ma anche gli interessi di una borghesia che – secondo i progetti di Morales – doveva acquisire caratteristiche sempre più nazionali. Far fallire questa sorta di socialismo vincente era necessario per riportare in America latina l’ordine imperiale.