Deportati, detenuti o costretti in quarantena in campi lavoro sovraffollati: accade ai lavoratori migranti nei paesi del Golfo, lussuose e inique petromonarchie che hanno fatto del lavoro migrante sottopagato e in condizioni di semi schiavitù un pilastro delle proprie economie.

E che ora, con l’epidemia di Covid-19 li cacciano o li sottopongono a misure di contenimento speciali, nella comoda presunzione che siano loro i veicoli del virus.

ETIOPI, EGIZIANI, INDIANI, filippini, pachistani, muratori, lavoratrici domestiche, autisti, infermieri, il destino è lo stesso. Nelle ultime settimane Arabia saudita ed Emirati arabi hanno deportato ad Addis Abeba migliaia di etiopi, lavoratori senza documenti che hanno impiegato mesi se non anni per raggiungere il Golfo, dopo aver attraversato il Mar Rosso e poi lo Yemen in guerra.

Per ritrovarsi con i passaporti sequestrati dai datori di lavoro – l’odioso sistema della kafala – e con impieghi pagati pochissimo e senza diritti.

Conferma la ministra della salute etiope, Lia Tadesse: «I lavoratori etiopi sono stati costretti a tornare, una situazione che diventa per noi una sfida per contenere il virus».

Identico appello dall’Onu: «I movimenti migratori di larga scala – dice Catherine Sozi, coordinatrice umanitaria delle Nazioni unite in Etiopia – rendono la continuazione della trasmissione del virus molto più probabile. Chiediamo la sospensione delle deportazioni».

A MARZO NE SONO STATI rimandati indietro 2.870, altri 3mila sono in procinto di essere espulsi. Degli 82 casi positivi in Etiopia, oltre la metà sono di rientro dal Golfo. Perché, in attesa della deportazione, i migranti vengono chiusi in centri di detenzione – denunciava a inizio aprile Human Rights Watch – dove la velocità del contagio si moltiplica.

E chi non è deportato o detenuto, è costretto a quarantene forzose, a misure di contenimento ben diverse da quelle a cui sono sottoposti i cittadini dei regni del Golfo.

Negli Emirati, in Arabia saudita, Qatar, Oman e Kuwait intere aree dove risiedono poveri e migranti sono state chiuse, non si entra e non si esce, mentre i campi di lavoro (città-dormitorio dove sono reclusi in centinaia di migliaia, in stanze piccole e sovraffollate) sono stati parzialmente sanificati ma privati di ogni sostegno esterno.

È proprio qui, dicono medici emiratini alla Reuters, che si registrano i focolai: in troppi e troppo vicini, in condizioni igieniche precarie e ora senza stipendio.

Non si tratta di porzioni piccole di popolazione ma della maggioranza: secondo l’Organizzazione internazionale del Lavoro, nel 2019 i migranti nei sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo erano 35 milioni, in media il 70,4% della popolazione dei singoli Stati, con il record del Qatar dove solo il 10% dei residenti è cittadino qatariota.

EPPURE GLI AIUTI PREVISTI dai vari regimi (spiccano i 2,4 miliardi messi sul piatto dalla corona saudita) andranno ai soli cittadini, non ai lavoratori stranieri. Una follia etica, ma anche economica: società che vivono del lavoro straniero collasserebbero senza le braccia dei migranti.

A sostenere gli stranieri chiusi in edifici abbandonati o stanze sovraffollate negli Emirati arabi e in Bahrain, riporta la Reuters, sono volontari e associazioni di beneficenza che arrivano dove lo Stato non ha interesse ad arrivare.

Obbligati a lasciare il lavoro dal lockdown, senza risparmi a causa di bassi salari e rimesse verso casa, moltissimi non possono permettersi un pasto e sopravvivono delle donazioni di organizzazioni locali. Non hanno paura di morire di Covid, hanno paura di morire di fame.

E montano i primi screzi diplomatici: Abu Dhabi ha minacciato India, Bangladesh e Pakistan – che di veder tornare indietro migliaia di lavoratori non hanno alcuna intenzione – di bloccare memorandum d’intesa ancora pendenti e di ridurre in futuro le quote di ingressi per motivi di lavoro.

RISPONDE ISLAMABAD per bocca dello special assistant del primo ministro: «Stiamo aspettando per creare il giusto meccanismo, così da non appesantire il sistema riportando qui le persone». Altri, come Bangladesh e Filippine, invieranno denaro agli uffici locali per assistere i propri cittadini.