Lodando la casa tre volte olimpionica, / benigna ai cittadini / servizievole con gli ospiti, / conoscerò la prospera Corinto / atrio di Posidone Istmio, / splendida di giovani; / vi hanno dimora Eunomìa e le sorelle, / stabile fondamento di città, / Giustizia, e Pace con lei nutrita, / dispensiere di ricchezza agli uomini, / auree figlie della saggia Temi: / vogliono respingere la Protervia, / madre arrogante di Sazietà. / Belle cose ho da dire e franca baldanza / spinge la lingua a parlare / / ma in ogni cosa conviene misura, / il meglio a conoscerla è l’attimo giusto. / Ora io, cittadino privato in missione ufficiale, / non mentirò su Corinto celebrando / l’intelligenza degli avi e la guerra / nelle virtù dei suoi eroi”.

(Pindaro, Olimpiche XIII, 1-12; 47-52)

Anche ai più deboli è facile / squassare una città; / ma rimetterla in piedi al suo posto / è impresa difficile, / se subito un dio non divenga / timoniere di colui che governa” (Pindaro, PiticheIV, 272-74; trad. Bruno Gentili)
Vincere, soprattutto se con ampio margine, è la cosa più bella; ma cela pericoli, se il trionfo non viene temperato dalla misura e dalla saggezza.

Questo ribadisce sempre Pindaro (V secolo a.C.), il più grande lirico dell’antichità, nelle sue sublimi odi ai vincitori degli agoni sportivi, spesso tiranni o reggitori di città.

La sfida per chi vince – nello sport come nella politica – è temperare sempre il giusto orgoglio della fama, il necessario compiacimento per la virtù, con la consapevolezza del proprio passato, dei propri limiti, e del rischio continuo della superbia (hybris) e della sazietà (koros) che porta a dismisura.