La stagione del dolore e della rabbia deve cedere il posto a una nuova primavera che ci liberi dal peso enorme di quegli anni. Una primavera di piena verità, di una giustizia che non si fermi all’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Né all’arido conteggio delle sanzioni e dei risarcimenti, ma che riesca in qualche modo a riparare il tessuto personale e sociale lacerato».

Le parole di Pietro Grasso, presidente del Senato, hanno introdotto, giovedì scorso, la presentazione di uno dei libri, a nostro avviso, più importanti dell’ultimo decennio. E sono parole che, tanto più perché pronunciate dalla seconda carica dello Stato nella sala più prestigiosa del Senato, di rado si sono udite nella discussione pubblica.

E sono parole che, tanto più perché pronunciate dalla seconda carica dello Stato nella sala più prestigiosa del Senato, assai raramente si sono udite nella discussione pubblica. «Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto» (Il Saggiatore, 2015, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato) è il resoconto, dolente e appassionante, di un difficile cercarsi, e infine trovarsi, di alcuni fra i protagonisti della stagione del terrorismo italiano (tra i tanti, Luca Tarantelli e Manlio Milani e Adriana Faranda e Franco Bonisoli).

Protagonisti, sia chiaro, in ruoli che più antagonisti non si potrebbe: gli uni attentatori, gli altri bersagli. Il libro racconta il loro percorso, durato oltre otto anni, le cui difficoltà si intuiscono sin dalla stazione di partenza. I partecipanti hanno intrapreso il loro cammino non avanzando, bensì retrocedendo da quell’idea di giustizia che si considera soddisfatta quando individua la responsabilità del colpevole e applica la sanzione prevista; e che confonde l’espiazione della pena con la restaurazione di un ordine.

Ma il carcere è una risposta sufficiente per il lutto delle vittime di quegli anni? È capace di esaudirne la domanda di giustizia? E, per converso, è in grado di consentire l’emancipazione dei responsabili dal proprio passato? Di permetterne quell’integrazione nel seno della comunità e quella «rieducazione» che l’articolo 27 della nostra Costituzione attribuisce alla pena come finalità e funzione?

Dunque, un inizio come sottrazione.

Ma quelle persone di cui il libro restituisce le voci, attenzione, hanno attraversato l’itinerario, umanissimo e dolorosissimo, di ricerca del dialogo con l’altro così incommensurabile, solo dopo avere espiato interamente la pena che i tribunali dello stato democratico hanno inflitto loro.

Sono quindi persone per le quali quella risocializzazione ha già in qualche modo funzionato. Per questa ragione, ci sembra che Gian Carlo Caselli sbagli quando – per altro con toni misurati – critica l’iniziativa in Senato quasi fosse una sorta di «legittimazione politica» delle Brigate Rosse. Ma in quel libro e in quella sala non c’era alcun partito armato e nemmeno un suo singolo esponente: c’erano, piuttosto, uomini e donne che da quel partito, dalla sua prassi e dalla sua ideologia hanno preso definitivamente congedo. Nessun riconoscimento, dunque, bensì la solenne celebrazione della forza della democrazia.

Ma c’è di più. Sentiamo Agnese Moro: «In questi sette, otto anni ho imparato ad ascoltare parole difficili, molto dure. E a sorprendermi nello scoprire, in quelli che io reputavo fossero solo dei mostri, delle persone, che avevano fatto lunghi cammini. E ho scoperto così che non siamo i soli depositari del dolore, ma che c’è un dolore anche nella consapevolezza di aver fatto qualcosa di tremendo e di non poterlo cambiare».

Per chi ha orecchie per intendere, ciò vuol dire innanzitutto una cosa: le responsabilità giudiziarie e morali non sono rimovibili, e i ruoli restano incomparabili, tra chi ha usato e chi ha subito violenza: ma la consapevolezza di aver fatto parte di una tragedia collettiva rende indispensabile, per superarla, andare oltre i rigidi meccanismi della giustizia retributiva.

Andrea Coi, ex militante Br, sembra rispondere alla Moro: «Ancora prima di aver finito di scontare la mia pena, mi resi conto che c’era un problema cui i tribunali non potevano dare risposta, ma spettava a me darla. C’era un debito di giustizia nei confronti delle vittime. Un processo molto lungo in particolare per me che dovevo riuscire a perforare una corazza ideologica dura, costruita in tanti anni di violenza, e a fare entrare un po’ di luce».

Questa volontà di comprendere e far proprio, nei limiti del possibile, la sofferenza dell’altro è esattamente quel «dare un senso al dolore», che sembra percorrere l’intero libro.

Nei silenzi, nelle attese, negli scarti, nelle esitazioni di un cammino così tortuoso emergono le difficoltà, certo, ma anche tutta la caparbietà di disporsi a essere coinvolti; e di rinegoziare sempre la propria libertà di ascoltare, e di parlare.

Così la conclusione del ministro, Andrea Orlando: «Nel libro ci sono molte pagine quasi bianche, talvolta poche parole incastonate al centro di una pagina tra ampi margini di vuoto. In verità quelli non sono dei vuoti, hanno una loro eloquenza: quegli spazi bianchi testimoniano il fatto che l’incontro è anzitutto disponibilità all’ascolto e dunque silenzio. Per leggere quelle pagine così vuote ci vuole almeno tanto tempo quanto a leggere quelle piene».