L’ultima a tenere su di sé l’attenzione dei giornalisti è Cecilie Kyenge. La ministra dell’Integrazione viene chiamata a giurare. Giorgio Napolitano e Enrico Letta l’aspettano alla scrivania collocata nel solenne Salone delle Feste del Quirinale, diviso a metà per l’occasione: da una parte i presidenti, i ventuno ministri, i corazzieri in alta uniforme, i funzionari del cerimoniale, la signora Clio. Dall’altra un dispiegamento di cronisti e telecamere da grande evento. Lo è, a suo modo: la nascita ufficiale della «grande coalizione» di centrosinistradestra che da oggi governerà l’Italia. La ministra modenese è la ragione in persona per cui la Lega minaccia di non votare la fiducia al governo: la donna è di origine congolese, è il primo ministro nero della repubblica italiana.

Sono le 11 e 40, dunque. Cecilie Kyenge – «Come si pronuncia?» chiede Donato Marra, segretario generale della presidenza della Repubblica, che deve annunciarla – si avvia alla firma con il sorriso largo e contagioso di chi ha raggiunto un traguardo storico non solo per sé. Fra i giornalisti si diffonde la notizia della sparatoria avvenuta davanti a Palazzo Chigi, dove la compagnia ministeriale deve recarsi dopo il giuramento. Si cercano conferme sui social network. Molti cronisti si precipitano via. Dall’altra parte del salone la scena comincia a essere surreale. Un funzionario si avvicina al neoministro Alfano, gli dice qualcosa. Forse lui non la capisce fino in fondo, forse non ricorda di essere ministro degli interni. La cerimonia va avanti, sorrisi e flash. Dalla stampa ora c’è chi urla: «Ma diteglielo». Quando tutti hanno giurato Napolitano si avvicina ai ministri e alle ministre per le foto di gruppo. Lo ferma un funzionario, gli spiega in poche parole testo e contesto: due feriti, uno grave, un gesto isolato. Il presidente si ferma un momento, riflette, poi riparte, sollecita le foto, ancora sorrisi. Un altro funzionario si avvicina al ministro Franceschini. Che finalmente lo dice a Enrico Letta, fin lì un uomo «sobriamente soddisfatto», parole sue pronunciate quando ha sciolto la riserva. Gli si gela il sorriso. Napolitano ora invita rapidamente tutti a passare nell’altra sala, non è il caso di scambiare battute con i giornalisti, niente da brindare, da qui in avanti tutti i membri del governo dovranno rispettare le procedure di sicurezza previste per queste occasioni. Pronte tutte le macchine: i ministri e i loro collaboratori non possono andare a piedi ad assistere allo scambio delle consegne fra Letta e l’ex premier Monti a Palazzo Chigi. Dove un’ora prima Luigi Preiti, 49enne, disoccupato, disperato, li aspettava con una calibro 7,65.

Non li ha trovati, per fortuna, ha trovato due carabinieri, per fortuna non è riuscito a ucciderli, ha sparato sei colpi prima di lasciarsi atterrare urlando: «Uccidetemi, uccidetemi».

La disperazione non è una giustificazione per un tentato omicidio. E’ un dato di cronaca, il primo con cui deve fare i conti il governo e il suo premier che oggi alle 15 parlerà alla camera. Entro domani incasserà il voto di fiducia di camera e senato, il più ampio della storia della repubblica.  I ministri restano storditi ancora un paio d’ore, blindati, prigionieri volontari di un cerimoniale inarrestabile: il rito della campanella dentro Palazzo Chigi, la banda che suona nel cortile, il presidente Monti che scende per l’ultima volta con il codazzo dei funzionari. Alle 13 il consiglio dei ministri si riunisce, poche parole di Letta ai suoi 21, ma chiare: «Date tranquillità al paese, non alimentate polemiche». Sarà Alfano a scendere poi dai giornalisti, dopo essersi recato a trovare il ferito più grave, e a parlare di «tragico gesto criminale» ma «isolato».

Fuori dal palazzo è un film d’altri tempi: ambulanze, uomini dei Ris in tuta bianca, cordoni di poliziotti che arginano cariche di giornalisti e telecamere. In molte erano appostate dalla mattina al lato di piazza Colonna in attesa dell’arrivo dei ministri. Quella del programma Telecamere e quella di Rainews filmano la sparatoria. E’ un gesto isolato, dicono da subito gli inquirenti. Ma ha un tempismo perfetto alla vigilia della fiducia del governo degli ex avversari Pd-Pdl: per alzare la tensione, bandire le critiche, incolpare chi stona nel coro della concordia nazionale. Se il signor Preiti davvero non ci ha pensato mentre preparava il suo piano, è invece la prima cosa che viene in mente alla destra, neoalleata del Pd. «Quando per mesi si inveisce contro il palazzo, qualche pazzo esce fuori», dice il sindaco di Roma Alemanno, precipitatosi sul posto. Ce l’ha con le 5 stelle? «No». I suoi sono meno ipocriti: «Va detto con chiarezza. Il fatto che l’attentatore possa essere uno squilibrato non cancella le colpe di quanti, proprio in quelle zone della Capitale, stanno alimentando un clima di odio e di violenza», dice Maurizio Gasparri. Ignazio La Russa chiarisce che non ce n’è solo per Grillo: «Chi semina vento raccoglie tempesta. La predicazione dell’odio e dell’abbattimento dell’avversario si manifesta anche col sistematico disturbo organizzato delle manifestazioni altrui». Walter Veltroni, ex sindaco di Roma, li stoppa subito: «Cio che è accaduto lo chiariranno gli inquirenti. Chiamare in causa per il clima il Movimento 5 Stelle è un errore grave e una strumentalizzazione». L’ex segretario è il più autorevole democratico a parlare. Gli altri sono un po’ in confusione: «Nel giorno in cui nasce un nuovo governo che ha come principale obiettivo ridare fiducia nel futuro migliorando le condizioni di vita degli italiani, quanto avvenuto non può essere sottovalutato», dice il giovane capogruppo alla camera Roberto Speranza. Ovviamente  dai 5 stelle arriva la «ferma condanna» del gesto di violenza. E dal blog, Grillo prova a chiuderla qui: «Il nostro MoVimento non è assolutamente violento. Noi raccogliamo firme ai banchetti, facciamo referendum e leggi popolari. Piena solidarietà alle forze dell’ordine». Anche Nichi Vendola si deve difendere: «Guai a cedere alla violenza» ma «un disperato o pazzo spara ed è tutta colpa di chi dissente, di chi non si piega all’inciucio. Non sentite puzzetta di regime?», twitta.

L’effetto solidarietà nazionale arriva subito. Dal Pd i pochi dissidenti rimasti annunciano uno dopo l’altro che voteranno sì al governo: Sandra Zampa, Sandro Gozi, Laura Puppato, Rosy Bindi. Pippo Civati aspetta la discussione nel gruppo, stamattina.

A sera Enrico Letta, quando va a trovare Giuseppe Giangrande, il carabiniere ferito più gravemente, misura le parole: «Ora è il momento in cui ognuno deve fare il proprio dovere». Responsabilità: la chiederà oggi alla camera, pronunciando il discorso di avvio del primo governo di centrosinistradestra, nato dal ribaltone della linea del suo partito e dall’alleanza con gli avversari di sempre. Una rottura del patto con gli elettori che il Pd ha chiamato, appunto, responsabilità.