Dovremmo cominciare a considerare libri come Meridiano di sangue, o Sotto il vulcano, o La cognizione del dolore, alla stregua di rivelazioni, così come parliamo dei vangeli canonici come di un «nuovo testamento»: le uniche rivelazioni credibili, zeppe come sono di versetti satanici, di un’epoca in cui la secolarizzazione ha piantato i suoi vessilli vittoriosi non solo sul mondo visibile, ma sulle pieghe più intime della psiche.

Meridiano di sangue, il capolavoro di Cormac McCarthy, pubblicato nel 1985, appartiene solo per convenzione e semplicità alla storia del romanzo americano o del romanzo tout court. Semmai, bisognerà ammettere che ci troviamo di fronte a uno di quei casi in cui una forma narrativa come quella del romanzo, dotata di tutta la sua infinita disponibilità, si presta ad accogliere al suo interno, come in tempi più antichi facevano le allegorie, un’autentica gnosi. Ovvero, secondo una luminosa definizione di Elemire Zolla, un processo di conoscenza integrale, nel quale giungono a un’incandescente coincidenza il soggetto, l’oggetto, e il metodo.

Pur ispirato a fatti accaduti alla metà esatta dell’Ottocento lungo la frontiera tra il Texas e il Messico, Meridiano di sangue è una visione apocalittica, una danza della morte, una cripta foderata di ossa. Lo stesso McCarthy, andando avanti nella sua carriera, arretrerà a più miti consigli, a più decifrabili simbologie. È possibile che in fondo si scriva sempre lo stesso libro; ma è ugualmente vero che ci sono libri che si scrivono una volta sola nella vita. Non si può vivere più di tanto a certe altitudini o in certi sprofondi. Di per sé, la scintilla storica che ha fatto divampare l’immaginazione dello scrittore americano si sarebbe offerta ai più vari trattamenti.

Il movente storico del plot
La banda Glanton, protagonista del libro, fu un’accozzaglia di infami assassini, pagata dalle autorità messicane e texane per uccidere il più grande numero possibile di nativi, assaltando villaggi e insediamenti e togliendo lo scalpo alle vittime. Quentin Tarantino ne avrebbe ricavato un sublime grand guignol, altri avrebbero ricamato sulle malefatte dell’uomo bianco. Ma a poche pagine dall’inizio di Meridiano di sangue, ecco apparire un personaggio incongruo, concreto e spettrale al tempo stesso, capace di scompaginare l’edificio narrativo e tutti i suoi possibili sottintesi ideologici, di scuoterlo fino alle fondamenta con un freddo, implacabile vento metafisico. Il giudice Holden, secondo Harold Bloom, è «la figura più terrificante della letteratura americana». Fin dalla sua prima apparizione, quest’uomo enorme, completamente glabro, si impone all’attenzione del «ragazzo», l’unico personaggio del libro che conquisterà il ruolo di antagonista del giudice, come potrebbe fare una divinità arcaica, emersa dagli abissi del tempo per riaffermare il suo potere sui mortali. Cito dalla splendida – e ormai classica – traduzione di Raoul Montanari: «Riluceva come la luna, pallido, senza un solo pelo visibile in tutto il gran corpo, nemmeno in qualche piega della pelle o nelle grandi narici o sul petto o nelle orecchie, e neppure un’ombra sopra gli occhi o sulle palpebre». Anche gli assassini della banda Glanton nutrono un istintivo rispetto per quel nume liscio, la cui natura sembra un’inaudita combinazione di mondo organico e minerale.

Holden è crudele e invincibile, capace di uscire indenne da ogni disgrazia. La volontà di potenza si manifesta in lui senza veli: mostruosa, accecante, seducente. Ha ragione Bloom: solo superficialmente si potrebbe affermare che, nel concepire la figura del giudice, McCarthy abbia pensato all’Achab di Melville. Semmai, anche per l’aspetto e le sue conseguenze psicologiche sul prossimo, Holden è una nuova versione di Moby Dick. Ma con un attributo che è solo suo, e che basta di per sé a definire lo scarto tra la potenza naturale e la volontà di potenza: il sapere.

Holden sa tutto. È l’estrema, inconfessabile incarnazione di ideali supremi della razza bianca: il sapiente greco (il filosofo sovrumano, come non a caso lo chiamava Giorgio Colli), l’artista-scienziato rinascimentale, di sapore vagamente leonardesco, punto di convergenza di innumerevoli conoscenze e discipline. L’attributo principale del giudice è un grande quaderno, che gli appare tra le mani come uno strumento magico, sul quale annota ogni aspetto del Creato, dalla forma delle rocce ai movimenti delle stelle: disegnare e nominare non sono forse le sintesi supreme del dominio, i mezzi più efficaci per trasformare il mondo in un immenso bottino ?

Se è possibile concepire qualcosa come un dio nichilista, ebbene il giudice Holden corrisponde esattamente a questa bizzarra fantasia teologica. Il suo sapere stesso si afferma come un’illusione da opporre alla maya di un mondo senza fondamento. Ciò che si può affermare di questo mondo, infatti, la sua verità suprema, è che «tutto è possibile». Questo insegna il giudice ai suoi compagni riuniti intorno al fuoco, discepoli lordi di sangue e attratti, volenti o nolenti, nel gorgo delle sue parole più micidiali di ogni freccia indiana. Alla banda di assassini e stupratori a cui si accompagna per indecifrabili motivi, il giudice ricorda che sono loro stessi a mettere ordine in un mondo che in realtà «è un cilindro truccato in uno spettacolo di illusionismo, un sogno febbrile, una trance popolata di chimere senza simili e senza precedenti, un carnevale itinerante» e così via.

Il suo sogno di violenza
È su questo fondale che il culto eracliteo della guerra trova la sua più piena giustificazione. Se tutto ciò che accade è una «danza», il sangue versato, il corpo martoriato del nemico, il suo scalpo, la sua dignità calpestata, ne sono le figure immutabili. Ciò che è più «terrificante» del giudice Holden non è il suo potere, e nemmeno la sua crudeltà, ma la sua natura di mediatore: tra la sfera delle realtà invisibili e imperiture e le più oscure pulsioni di ogni singolo individuo, quelle che fanno, a seconda di contingenze del tutto irrisorie, un sicario o una vittima. Malvagio demiurgo se mai ce ne furono, il giudice Holden ci inchioda tutti, senza rimedi apparenti, nel suo sogno di violenza dal quale non sembra esserci risveglio.