Il tema della durata della condanna all’ergastolo, con il suo inappellabile «fine pena mai», torna di drammatica attualità con la campagna proposta su questo giornale Digiuna per la vita, rilanciata nello scorso fine settimana da un toccante e molto argomentato articolo di Maria Luisa Boccia. Per una volta, è confortante che una delle massime istituzioni teatrali nazionali, il Piccolo di Milano, presenti in fortunata coincidenza uno spettacolo che con il proprio pensiero e il proprio linguaggio, tocca proprio quell’aspetto della convivenza «civile». Uno spettacolo che riporta una vicenda reale, ma curiosa e insolita: la corrispondenza epistolare,e quindi la conoscenza sempre più profonda, instauratasi tra un detenuto condannato all’ergastolo per una serie di reati, e il giudice stesso che quella pena gli aveva appena inflitto.

 

 

Il giudice è Elvio Fassone, magistrato torinese, che poi ha deciso di pubblicare quel fitto carteggio da Sellerio, con il titolo significativo Fine pena: ora, ovvero l’espressione che il detenuto gli grida rabbiosamente il giorno in cui tenta il suicidio. Quel libro è arrivato ora in scena, con la regia di Mauro Avogadro, e lo stesso titolo Fine pena:ora (al Piccolo Grassi di via Rovello,repliche fino al 22 dicembre). Ed è uno spettacolo davvero impressionante, per la bravura dei due attori che rendono il problema bruciante e vicino, senza nasconderne i momenti di furia e quelli di coinvolgente dolcezza, in un percorso che dura ben ventisei anni.

 

 

Sergio Leone è il giudice, con i suoi dubbi e i suoi slanci, sobrio ed efficace anche se fa trasparire la stranezza e la curiosità di quell’iniziativa «postale»; Paolo Pierobon dà grinta straordinaria a quel condannato a morte vivente, che colorisce (lui di origine veneta) di un dolorante, puntiglioso accento (e anche dialetto) siculo. Forte è l’oppositività che ne risalta, uno scontro ad altissima temperatura che pian piano si scoprirà contenere al suo interno una intesa (se non proprio un affratellamento) di due figure antitetiche della nostra società, il giudice e l’assassino, e quindi il galeotto, che secondo il banale senso comune verrebbe difficile accostare, mentre in questo dialogo a distanza ognuno dei due scopre una insospettabile ricchezza di «umanità» (con un’ombra di schematismo nella drammaturgia firmata da Paolo Giordano).

 

 

Con una scansione quasi cinematografica nella scena parallela di Marco Rossi, la regia di Avogadro sottolinea tempi, immagini e parole di quell’avvicinamento, prima circospetto, sempre contraddittorio, infine straordinario. L’uomo recluso ripercorre grazie a quelle lettere la propria storia, di formazione e di deformazione; davanti a se stesso (e al magistrato, e ora al pubblico) si giudica e si comprende fino in fondo, in una lunghissima presa di coscienza. Un processo che non è estraneo anche all’altro personaggio, che trova l’occasione per mettere a nudo le certezze dei suoi studi e della sua professione, che poi dovrebbero essere la base della convivenza in democrazia. Sulla quale quella condanna all’ergastolo apre una ferita che non si rimargina.