Il Giro d’Italia è ancora maestro di qualcosa che ci riguardi? È possibile raccontare il Paese seguendo la corsa che da cento e più anni lo attraversa? Di cosa ci parla l’entusiasmo della gente per le strade, che ancora sopravvive? Si può osservare il gruppo come un microcosmo, attraversato dalle passioni, dai conflitti, dai bisogni della nostra società?

Gianni Mura è in gruppo dal ’65, e ancora oggi non fa niente per nascondere la contentezza quando, salutandolo, gli chiedo se anche quest’anno prenderà la via della Francia per raccontarci il Tour. Ha fondato il fan club italiano di Romain Bardet (tre membri), da quando il giovane francese in corsa si strappò gli auricolari dalle orecchie, ribellione estrema a un ciclismo radiocomandato, firmando con una vittoria uno dei gesti più acclamati al Tour dell’anno scorso. Se gli scandali del doping hanno rischiato di travolgere il ciclismo, l’imperversare di dietologi e oreillettes non hanno certo contribuito a riscattarlo. «Considera», mi dice Gianni, «che ai tempi eroici i corridori correvano per squadre nazionali. Una vittoria di Bartali in Francia, con il seguito che allora aveva il ciclismo, dava un senso di appartenenza nazionale». E viceversa i francesi si incazzavano, «perché la guerra era finita da poco, con tutto quello che avevamo fatto loro». Ora succede durante le olimpiadi, quando un’occhiata di sottecchi data al medagliere ci restituisce l’evidenza del primato nostro su quelli di là dalle alpi, grazie per lo più a sport dei quali nei quattro anni successivi ci scordiamo il nome. O col calcio, «ma anche lì prima si festeggiava per una finale vinta, ora dopo la prima partita cominciano i caroselli. Non so se è più senso d’appartenenza o voglia di far casino».

E poi la grande barriera che si è interposta tra il campione ed il suo popolo, metafora efficace della profonda divaricazione che ha spaccato le nostre società negli ultimi trent’anni e che ha travolto una socialità antica fatta di luoghi, di pratiche, di consuetudini per lo più comunitarie. Intendiamoci, il mito di Bartali non è un’idea romantica nata a posteriori, ma la realtà di un paese che lo aveva eletto a leggenda. Ma quando Jacques Anquetil, uno dei primi corridori ad assumere pose e stili di vita hollywoodiani, da dilettante assai promettente andò ad omaggiare Fausto Coppi a casa sua, in cima al cucuzzolo di Castellania, ne uscì colpito soprattutto dalla modestia con cui viveva il Campionissimo: «Pensavo di andare a trovare il re del ciclismo, e mi trovai le galline che beccavano in cucina». Il divo Bartali abbandonò Ponte a Ema non per Lugano o Montecarlo, dove risiedono oggi gli sportivi, ma per il quartiere di Gavinana (in linea d’aria, tre chilometri), e la sera lo potevi trovare al bar Oltrarno (oggi c’è un sushi). E se il giovane cronista Giorgio Bocca voleva raccontare qualcosa sul Grande Torino, sapeva bene in quale bar trovare Mazzola e Gabetto che si giocavano l’aperitivo a goriziana, con gli operai da poco usciti da lavoro che si fermavano, composti, ad osservarli. In assenza di twitter, il suiveur era il tramite in corsa tra i campioni e la gente assiepata sulle strade o dentro i bar. «Non dico che ti venissero a cercare», riflette ancora Gianni Mura, «ma insomma era un venirsi incontro a metà strada. Ora le stanze d’albergo dei corridori sono off limits».

Aggiungiamoci il livellamento in gruppo. Livellamento delle prestazioni, per via dell’esasperazione estrema della scienza alimentare e della tecnologia applicate allo sport. Questione non solo di doping. La bistecca e il bicchiere di vino, simbolo del riscatto sociale di campioni nati poveri, sono banditi, sostituiti dalle maltodestrine e dagli integratori. I corridori telecomandati dalle ammiraglie con le ricetrasmittenti, che Gianni Mura chiama «maledette». Perché il campione non era campione solo perché andava più forte, ma anche per una capacità superiore di giudicare sul momento le debolezze altrui, con uno sguardo, e per un’altrettanto superiore conoscenza del proprio corpo.

L’impresa per eccellenza in questo sport, il trionfo al Giro e al Tour nella stessa stagione, non si può più fare, perché i preparatori atletici, i nuovi pontefici di questa religione, hanno stabilito ex cathedra, «dati alla mano», che non è possibile, e così sia.

E livellamento delle condizioni sociali di partenza. In gruppo è scomparso l’uso del dialetto. Gli eroi di un tempo erano spazzacamini, garzoni, contadini. Si arrivava al ciclismo per caso o per sfuggire alla propria condizione, ma di questa si seguitava a portare impressa nella faccia la memoria genetica e sociale. Con l’eccezione forse di Quintana, in gruppo oggi ci sono ciclisti che ciclisti sono nati. Non si possono raccontare le gesta di un Corrieri, che prima di staccarsi metteva nel mirino ogni traguardo intermedio: polli, maiali, conigli, che poi rivendeva sul momento per spedire a casa sua, in Sicilia, tutto il ricavato. E la scazzottata con Conte, per via di questo suo non lasciar niente agli altri poveri diavoli del pedale, che mandò in visibilio Pratolini.

Eppure il Giro non esisterebbe senza il suo rapporto con quella cosa che ci si ostina a chiamare Italia. A differenza del calcio, che si disputa in stadi ormai ridotti a non-luoghi, il ciclismo va a trovare il suo popolo a domicilio; basta affacciarsi su un tornante, o dal balcone di una terrazza. E il gruppo si porta dietro la memoria di un paese intero. La memoria di Coppiebbartali (Mura ha scritto una volta che per lui sono una persona sola), di Gimondi che è stato grande grazie a Merckx, di Fiorenzo Magni e della Dama Bianca che lo mandò, in corsa, a quel paese; e assieme a loro, dei cartai di Tortolì, dei contadini di Bronte, dei migranti di Rosarno, dei cafoni del tavoliere delle Puglie, dei braccianti di Reggio, dei disertori della grande guerra e di tutte quelli storie grandi e piccole che il Giro ci dà l’occasione e il privilegio di poter raccontare.