Entrato in ballo il Cile, anche letteralmente, tra melò e regaetton (sciorinato, spiegato semanticamente da Bernal in una scena di Ema, che da sola può giustificare l’esistenza di un festival), a Venezia ha preso corpo la vitalità, la libertà della messa in scena, l’estro che hanno accomunato un regista esperto come Larrain, pure sorprendente con il suo Spring Breakers in salsa cilena (ecco un altro film che dice molto, forse tutto sul contemporaneo, in una folle ridda di allusioni, ellissi, sonnambulismi, continui depistaggi del motivo cinematografico, l’assunto) e l’esordiente Sebastiàn Muñoz con il suo El Principe, primo, bellissimo film in concorso nella la Settimana Internazionale della Critica, dopo l’animazione indiana di Bombay Rose. Un ballo appassionato, mentre un jukebox essuda una canzone d’amore: l’opera prima di Muñoz è un tango grondante sangue, lacrime, o ogni altre secrezione; lento in estasi, di corpi sudati, aderenti al limite dell’assedio, della folla stretta in una festa da cella, da cui emergono gli zigomi cantanti del Principe, nel mezzo della prigione cilena, trasformata in alcova disperata, di membri in erezione, gelosie, intrecci d’amore.

ECCO un aspetto interessante di questo film falsamente carcerario: il topos della sodomia paventato quando s’entra in carcere, qui è, dopo la prima coercizione, beneaugurato, praticato con estrema passione e tenerezza, come collante di una comunità (di reietti) che si stringe forte all’interno di una specula, un rifugio all’insegna del melò, auspici Almodovar, Fassbinder, Jarman. Il meccanismo allora è di ritrazione piuttosto che di estroflessione in un Cile possibile quale quello di Allende; e anziché la speranza vige una rassegnazione crepuscolare, la volontà di uscire dal mondo da parte di questi corpi insanguinati, portatori di anime lacerate, impalate da manici di scopa.

UN ARRETRAMENTO non solo all’interno del carcere, poi concentricamente della cella, unico luogo in cui il Principe – Jaime, ragazzo emotivo, insicuro, che va scoprendo e fagocitando la propria omosessualità tra inquietudini e attacchi violenti di passione nel Cile degli anni Settanta – sente di poter essere se stesso, ma retrocedendo sempre di più verso lo sfondo ripreso da Muñoz, lo spazio angusto, massimamente controllabile, che è il letto scricchiolante contro il muro dove viene deflorato da un Alfredo Castro ancora una volta dolente e potente maschera non di un Cile ferito, ma di tutta un’America latina, violentata, ricattata, alla fine ammazzata a ferro come Riccardo «El potro». Dietro il letto, s’erge un muro scalcinato, sfondo di un’educazione sentimentale svolta à rebour, fuori dal mondo (pure splendente di flashback), che, con le sue titubanze e le sue baldanze, il raschio sporco delle sue tragedie, s’accorda allo sfacelo dello scenario immaginato da Muñoz, qualcosa di espressionista, come un brulichio mortuale, che deve qualcosa al primo Larrain, quello di Tony Manero o di Post mortem, apoteosi di ciarpame in luce cadente, macerata.

È SU QUESTO sfondo larrainiano che s’interpola il melò, tant’è che il risultato è quello di una rude affettazione, una virilità femminea, spesso anche allucinata che scongiura il realismo, ma anche una realtà impossibile da decifrare se non strofinandosi contro la terra, nella fanghiglia di uno stagno o strisciando come biscia nell’erba, masturbandosi al pensiero dell’amore non corrisposto o semplicemente inconsapevole, ma sempre presente, a innervare il tragico dimenarsi di questi corpi languidi.