Dieci anni fa, in una calda notte d’agosto in cui l’attenzione del pianeta era concentrata sull’inaugurazione delle olimpiadi di Pechino, scoppiava improvvisa «la piccola Guerra che scosse il mondo»: la Georgia tentava di riconquistare manu militari la provincia ribelle del Sud Ossezia offrendo alla Russia il palcoscenico che cercava per riaffermarsi come grande potenza sovrana.

La svolta nel 2004 quando la cosiddetta «rivoluzione delle rose» portò al potere in Georgia il neo-laureato negli Usa Mikhail Saakashvili. Dopo gli anni di stagnazione di Eduard Shevarnadze, il nuovo regime corrispondeva sì alla volontà popolare di cambiamento ma costituiva anche parte del progetto dei neo-conservatori Usa di Bush volto a espellere l’influenza russa dalle periferie ex-sovietiche. La Georgia divenne fronte decisivo.

Saakashvili iniziò a premere per una rapida «re-incorporazione» delle regioni separatiste. Tbilisi chiuse il principale elemento di connessione fra i due popoli, il mercato di Ergneti, e rinnovò la presenza militare a ridosso dei villaggi osseti. Tagliati fuori dall’economia georgiana e di fronte a una nuova ondata di nazionalismo, agli osseti non rimaneva che invocare la nuova Russia di Vladimir Putin quale unica prospettiva per il futuro.

La Georgia fece quindi dell’entrata nella Nato una priorità e iniziò a spiegare l’esistenza dei conflitti separatisti quali mere macchinazioni della Russia per mantenere il paese sotto la propria influenza. Osseti e abkhazi divennero ostaggi del confronto fra la Nato in espansione e una Russia sulla difensiva per mantenere le proprie posizioni.

Su tale sfondo, osservando gli sviluppi tra il 2004 e quel fatidico agosto, appare evidente che nella prospettiva georgiana il ricorso alla violenza era nella logica delle cose. Le spese militari decuplicarono passando dall’1,4% del Pil nel 2004 al 9,2 nel 2007 (1,2 miliardi di dollari, senza contare una serie di donazioni da parte di vari paesi Nato), seconde al mondo. Nel frattempo, gli uomini di Saakashvili mobilitarono il paese attorno a un nazionalismo a tinte mistiche, fondato sul valore sacrale dell’«unificazione delle terre georgiane».

AL TEMPO STESSO, il regime incontrava seri problemi nel mantenere il consenso interno, mostrando i suoi limiti con una repressione crescente del dissenso e l’appropriazione di risorse private degli avversari tramite un uso politico dello strumento giudiziario. Il tutto creava un crescente fronte di opposizione che a fine 2007 aveva cercato di prendere il controllo delle piazze scatenando la repressione poliziesca del regime.

Saakashivili aveva quindi bisogno di distrarre il fronte interno. Nonostante ciò, Washington, principale sponsor con Israele del riarmo a tempi forzati della Georgia, manteneva un appoggio incondizionato a Tbilisi in vista del Vertice Nato di Bucharest del 2008 dove voleva sancirne l’inclusione. Seppur ciò non avvenne per l’opposizione degli europei occidentali, Putin avvertì esplicitamente che per la Russia esistevano «linee rosse» su ciò che gli Usa volevano creare a ridosso delle proprie frontiere.

Non va dimenticato, il vertice venne dopo il riconoscimento del Kosovo: il riarmo e la retorica bellicosa georgiana preparavano il perfetto pretesto per Mosca per passare dalle parole ai fatti. A tale analisi va aggiunto il peso del fattore locale osseto, dove il regime del presidente Kokoity si era consolidato quale baluardo alla rinnovata pressione georgiana e aveva tutto l’interesse ad aumentare la propria rilevanza giocando sulle rivalità geopolitiche fra Mosca e Tbilisi e i suoi protettori americani.

Sul campo osseto ciò si rifletteva in un costante aumento delle tensioni in una guerra «sporca» fatta di provocazioni, sequestri e attentati contro la popolazione civile volti ad addossare la responsabilità delle vittime alla parte avversa. All’inizio d’agosto queste tensioni esplosero.

NONOSTANTE I MONITI formali a non far ricorso allo strumento militare, Saakashvili percepì che l’America sarebbe intervenuta in difesa di un alleato privilegiato in caso di reazione armata della Russia. L’attacco georgiano ebbe un carattere particolarmente proditorio: la sera del 7 agosto Saakashvili aveva annunciato in tv una tregua e nuovi negoziati, tranquillizzando così la restante popolazione di Tshinvali, in maggioranza fortunatamente evacuata nei giorni precedenti. Ma nella notte si ritrovò sottoposta ad un massiccio bombardamento d’artiglieria.

SEGUÌ UN ASSALTO di mezzi corazzati che travolsero anche i militari russi legalmente presenti quali forze di peacekeeping rendendo l’intervento di Mosca inevitabile. Tuttavia il Cremlino stesso sembrò colto di sorpresa e solo nel pomeriggio dell’8 l’esercito iniziò a mobilitarsi a pieno regime, ore cruciali in cui le milizie ossete riuscirono da sole a contenere l’urto georgiano, in una città divenuta campo di battaglia.

L’intervento russo sbaragliò l’esercito georgiano, anche bombardando e occupando il paese in profondità, ben al di là delle regioni separatiste, in un evidente carattere punitivo che aveva lo scopo di creare un monito per chiunque avesse voluto ancora sfidare Mosca.

INIZIATA PER RIUNIFICARE il paese, l’avventura di agosto di Saakashvili risultò nella sua divisione permanente e costò la vita di almeno 850 persone (365 da parte osseta, oltre 400 da quella georgiana, inclusi 180 militari e poliziotti e 67 militari russi) e provocò lo sfollamento temporaneo di 100mila civili, di cui 20mila non rivedranno più le loro case.
Rimane sconcertante come un governo responsabile di un simile atto di aggressione, causa di tali disastri, sia potuto rimanere ancora in carica per oltre quattro anni.

Per cercare di rispondere a tale domanda, soprattutto in Georgia, si sono diffuse tesi cospirazioniste che, a parte una deliberata strategia per la sopravvivenza del proprio regime (con annesso rinnovo di fondi per la ricostruzione dai paesi occidentali), vedono nella linea di Saakashvili ora manovre indotte da falchi di Washington, ora l’esecuzione di piani redatti direttamente da Mosca per la propria riaffermazione sovranista.

PER COMPRENDERE tale paradosso, la guerra, la prima combattuta sotto l’egida dei social media, va valutata sul piano dove fu più intensa, quello mediatico e rappresentativo. Saakashvili, che mentre la bandiera georgiana veniva issata a Tskhinvali disse che stava «ristabilendo l’ordine costituzionale» nel paese, non appena i suoi soldati iniziarono a fuggire disordinatamente di fronte ai russi, dichiarò al mondo che stava reagendo a un’«invasione di Mosca per sopprimere la libertà della Georgia».

Affermazioni che trovarono un’eco spropositata sui media occidentali, dalle major anglosassoni alla stampa di casa nostra, che coprirono il conflitto con zero considerazione del contesto storico e geopolitico degli eventi e un evidente inclinazione a demonizzare l’avversario quale il Male assoluto. Dal suo canto Mosca affermava di essere intervenuta per prevenire un «genocidio», al pari di quanto fatto dalla Nato in Kosovo nove anni prima, una linea che rimaneva sommersa nel coro occidentale.

ERA L’INIZIO della «nuova guerra fredda» che, dopo che le stesse politiche, cieche e arroganti da parte occidentale e revansciste da parte russa, portarono al precipitare della situazione anche in Ucraina, costituisce la realtà attuale delle relazioni in Europa orientale.

Allora come oggi si vogliono spiegare tensioni geopolitiche con la narrativa moralistica di uno scontro fra occupazione/libertà in un pericoloso processo in cui la Nato cessa di essere un sistema di sicurezza per divenire portatrice di una missione civilizzatrice. Con l’estensione del confronto al Medio Oriente è tempo di interrompere questa narrativa: nuovi disastri sono ancora possibili.

*Ricercatore associato IsAG, dal 2008 al 2018 membro della missione UE per il monitoraggio dei conflitti in Georgia