Sei milioni di israeliani aventi diritto di voto oggi, fino alle 21 ora italiana, avranno la possibilità di scegliere i 120 membri della nuova Knesset. Più di tutto diranno se vogliono ancora come premier Benyamin “Bibi” Netanyahu. Perchè queste legislative, volute in anticipo proprio dal primo ministro, si sono trasformate in un referendum. Netanyahu pensava di vincerle agevolmente e di formare una nuova coalizione persino più spostata a destra di quella uscente. Invece il suo avversario, il laburista Yitzhak Herzog,detto “Buji”, sebbene privo di carisma e con una vocina che si sente appena, rischia di mandarlo a casa e di mettere fine al suo lungo regno. Herzog, che guida assieme all’ex ministra Tzipi Livni la lista “Campo Sionista”, puntando sui temi economici e sociali e favorito dalla voglia di cambiamento di una porzione significativa della popolazione – non voglia di sinistra o di pace con i palestinesi, è bene sottolinearlo –, ha prima raggiunto nei sondaggi il premier e leader del partito Likud, quindi l’ha superato ed è stato poi in grado, almeno fino agli ultimi sondaggi, di venerdì scorso, di conservare un vantaggio intorno ai 3-4 seggi. Netanyahu che aveva provato a dare slancio alla sua campagna elettorale tutta puntata sui temi della sicurezza e non aveva esitato ad attaccare davanti al Congresso Usa la politica di Barack Obama di compromesso con l’Iran, ha capito troppo tardi di aver fatto un buco nell’acqua. Per il primo ministro l’assalto ai voti della destra radicale è l’ultima speranza di evitare la sconfitta.

 

Se il raduno di migliaia di coloni, attivisti e simpatizzanti della destra domenica sera in Piazza Rabin a Tel Aviv è stato, di fatto, il megafono dell’appello di Netanyahu al “voto utile”, ossia a votare per il Likud e non per gli altri partiti della destra, il discorso pronunciato ieri dal primo ministro durante la visita nell’insediamento colonico di Har Homa, un mostro di cemento armato che lacera il territorio palestinese occupato tra Gerusalemme Est e Betlemme, è stato l’annuncio del programma del “nuovo” governo. L’unità di Gerusalemme, ha proclamato Netanyahu, sarà mantenuta «in tutte le sue parti», quindi niente restituzione ai palestinesi della zona araba occupata, così come si continuerà «a costruire e fortificare» la città per impedire ogni sua futura divisione. Dichiarazioni che si aggiungono a quelle al sito Nrg che, se rivincerà le elezioni, si opporrà alla nascita di uno Stato palestinese. Parole che rappresentano non solo l’ennesima negazione di diritti palestinesi sanciti da innumerevoli risoluzioni internazionali ma anche uno schiaffo in faccia all’Amministrazione Obama che, tra mille ambiguità e il rinnovarsi dell’alleanza strategica con Israele, afferma il suo sostegno a uno Stato di Palestina.

 

Se produrrà dei frutti questo spostarsi di Netanyahu verso posizioni ancora più estreme, lo vedremo questa sera quando, alla chiusura delle urne, saranno resi noti i primi exit poll. Certo è che regna un clima di forte apprensione nel Likud dove cominciano ad affiorare malumori verso la linea adottata da “Bibi” (il nomignolo di Netanyahu) poco attenta alle difficoltà economiche di tante famiglie israeliane. Un tema sul qualche al contrario ha battuto Herzog e anciora di più il leader del partito Kalanu (destra sociale), Moshe Kahlon, che ha portato via al Likud parecchi voti. Anche la denuncia di Netanyahu di un “complotto internazionale” per mandarlo a casa non avrebbe convinto tutti i dirigenti ed attivisti del partito e ancora meno l’elettorato. Il Jerusalem Post ieri riferiva che mentre all’inizio del mese il 60 per cento degli israeliani pensava che Netanyahu guiderà il prossimo governo, la settimana scorsa la percentuale è bruscamente calata al 49,6 per cento. La percentuale di quanti ritengono che il nuovo esecutivo sarà guidato da Herzog è balzata al 20 al 30 per cento. Un segnale delle tensioni interne al Likud è stata anche l’apertura su Facebook di una pagina dal nome “Gideon Saar alla guida del Likud”. Saar è un ex ministro che mesi fa ha lasciato la politica in polemica con Netanyahu.

 

Per opporre una barriera all’offensiva finale di Netanyahu, ieri Tzipi Livni ha annunciato la decisione di rinunciare alla carica di premier a rotazione con Herzog. Falco che ha partecipato da ministra a tre offensive contro la Striscia di Gaza ma che in qualche occasione ha indossato gli abiti della moderata, Livni gode di stima e consensi nella classe media israeliana di origine ashkenazita ma è guardata con diffidenza dagli israeliani meno abbienti che vivono nelle periferie, una parte di elettorato ai quali si rivolge Herzog per conquistare voti che di solito vanno al Likud. Anche in questo caso solo lo spoglio dirà se il passo indietro di Livni sarà stato utile a “Campo Sionista”. Le urne diranno anche se è stata coronata da successo la riunificazione, a scopo elettorale, dei partiti arabi nella Lista Araba Unita, alla quale i sondaggi danno tra i 13 e i 15 seggi. Sulla base del sistema elettorale israeliano, il totale dei voti validi è diviso per 120, il numero dei seggi alla Knesset. I “resti” sono spartiti anche sulla base di accordi fra le liste: chi ha maggiori resti da vantare si aggiudica un seggio un più. Ad affidare l’incarico di formare il nuovo governo, in base ai risultati elettorali, sarà il presidente Reuven Rivlin.