Avevo 22 anni, gli ultimi tre impegnati nella lotta studentesca contro la dittatura di Fulgencio Battista. Il 2 gennaio 1959, dopo la ignominiosa fuga del dittatore e quando il Che stava entrando all’Avana con la sua colonna libertadora, con un gruppo di compagni avevamo assaltato una stazione di polizia e ci eravamo impossessati delle armi.

Con quelle abbiamo poi occupato la scuola di giornalismo nella quale eravamo iscritti e la stazione degli autobus dell’Avana. Infine avevamo organizzato il presidio del quartiere – borghesia medio-alta – nel quale abitavamo.

La sensazione generale era che eravamo alla vigilia di un cambiamento storico. Persino parte dei poliziotti che avevamo disarmato ci dissero di essere prudenti di non esporci a pericoli e che potevamo contare con loro.

Dunque erano giorni esaltanti e frenetici. Si stava avverando il nostro sogno di una Cuba libera e democratica. Aspettavamo Fidel, che questo sogno aveva reso possibile con una guerriglia vincente. In particolar modo lo aspettavo io.

Ero stato alunno del collegio dei gesuiti di Belem proprio quando il futuro leader dei barbudos si era diplomato. Ho avuto un paio di professori che lo avevano formato. Ricordo il ritratto di Fidel appeso a una parete di una sala del collegio come uno degli allievi che più si erano distinti.

Qualche anno prima, dopo che Fidel aveva guidato l’assalto fallito alla caserma Moncada di Santiago ed era ricercato dalle forze di sicurezza, con altri allievi avevo organizzato uno sciopero di qualche ora – il primo forse mai avvenuto dai gesuiti – perché Fidel Castro potesse avere garantito un processo e non fosse eliminato una volta catturato degli sbirri di Batista.

Per queste ragioni ricordo a tutto tondo il giorno in cui Fidel entrò all’Avana in un tripudio di folla. Ci eravamo precipitati all’Avenida del puerto per aspettare la «carovana» che da Santiago lo aveva portato all’Avana. Non solo giovani o operai o militanti della lotta clandestina. Ma proprio tutta l’Avana.

Del resto anche una parte della borghesia aveva contribuito a finanziare la guerriglia e dunque aveva scelto di non fuggire. Buona parte del movimento cattolico anche appoggiava la rivoluzione.

Come in delirio ci spostammo alla città militare di Columbia dov’era atteso il discorso del lider maximo. Mi ricordo ancora la famosa scena ritratta anche da una foto storica. Mentre stava parlando una colomba bianca si posò sulla spalla sinistra di Fidel.

Per noi cattolici la paloma blanca è l’immagine dello spirito santo. Un allegoria facile forse ma in quel momento ci fu un boato.

Per noi fu il simbolo di una resurrezione di Cuba dopo decenni di governi corrotti e dipendenti dagli Usa, situazione poi aggravata dalla dittatura di batista. «Vamos a cambiarlo todo», era il nostro slogan e la nostra speranza.

E Fidel era visto come il garante – quasi messianico – di questa nuova Cuba che stava nascendo.