Sono le storie dei singoli a far capire, all’estero, cosa significhi essere egiziani. Khaled Said, Alaa Abdel Fattah, Mahmoud Abu Zeid, Giulio Regeni, Patrick Zaki, Sarah Hijazi, chi ucciso per strada dalla polizia, chi torturato per giorni fino a morirne, chi detenuto senza ragione se non quella della repressione politica, chi tanto umiliato e abusato da voler abbandonare la vita.

LE LORO STORIE sono tanto più dolorose perché non sono l’eccezione, ma la normalità. Una normalità fatta di (ed è una stima) due o tre sparizioni forzate al giorno, di 60mila prigionieri politici, di leggi che vietano lo sciopero e le manifestazioni di dissenso.

Vale la pena raccontarne altre: a soffocare gli egiziani sono corpi militari e di polizia i cui strumenti arrivano dall’Italia e l’Europa, armi leggere, sistemi di intercettazione, veicoli blindati. Non ci sono solo le fregate.

Lunedì scorso in prigione in Egitto è finito l’ennesimo giornalista. Mohamed Monir, 65 anni, è stato arrestato da agenti in borghese ed è al momento in detenzione preventiva, i famosi 15 giorni rinnovabili senza limite. È accusato di appartenenza a organizzazione terroristica, diffusione di notizie false e abuso dei social media. Il motivo: era apparso su Al Jazeera, emittente tv qatariota, considerata dall’Egitto quasi minaccia esistenziale.

LA RAGIONE È POLITICA: il Qatar è un sostenitore dichiarato dei Fratelli Musulmani, dal 2013 messi al bando dal Cairo come organizzazione terroristica, soggetti a processi di massa e massacri (come quello di piazza Rabaa, agosto 2013, primo atto del regime di al-Sisi).

Dopotutto Mahmoud Hussein, caporedattore di Al Jazeera in Egitto, è agli arresti dal 20 dicembre 2015, senza che si sia mai arrivati a processo. E senza che un’accusa formale nei suoi confronti sia mai stata mossa, dopo oltre 1.270 giorni trascorsi in cella.

La polizia era stata a casa di Monir già il sabato precedente senza trovarlo. Gli agenti erano però stati “catturati” dalla videocamera di sorveglianza. Solo a maggio sono stati quattro i giornalisti arrestati in Egitto, terzo paese al mondo per reporter dietro le sbarre dopo la Cina e la Turchia, attualmente 26, numero che comprende solo quelli arrestati in relazione diretta al lavoro svolto.

Non solo i media. Negli ultimi mesi di epidemia di Covid-19 il sistema repressivo si è scagliato anche contro gli operatori sanitari critici verso la mala gestione della crisi.

C’è chi ha scioperato, chi si è dimesso, chi ha raccontato in che condizioni si lavora negli ospedali al collasso, privi di attrezzature e protezioni. Si finisce in carcere: secondo Amnesty International tra marzo e giugno l’Nsa, i servizi di sicurezza egiziani – gli stessi responsabili della sparizione e le torture a Giulio Regeni, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma –, hanno arrestato sei medici e due farmacisti per aver espresso sui social media le loro preoccupazioni.

Tra loro c’è Alaa Shaaban Hamida, dottoressa di 26 anni, arrestata il 28 maggio all’ospedale di Alessandria, dopo essere stata segnalata dal suo stesso direttore.

Hany Bakr, oftalmologo di 36 anni, è stato portato via dalla sua casa a Qalyubia, nord del Cairo, il 10 aprile per un post di critica al governo su Facebook. Il 27 maggio è stato un medico la vittima dell’Nsa: aveva scritto un articolo sul fallimentare sistema sanitario egiziano. Questi alcuni dei casi.

CE NE SONO TANTI ALTRI, denunciati dal sindacato dei medici, che parla di minacce, interrogatori, multe, trasferimenti: «Stanno costringendo i medici a scegliere tra la morte e la prigione».