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Quella sul futuro dell’industria dell’informazione all’epoca di Internet e degli smartphone, della crisi e delle startup, è una letteratura florida. Negli ultimi anni alcuni testi che indagavano e riflettevano sulla sostenibilità e le modalità del giornalismo – tra carta e on line – hanno saputo cogliere momenti essenziali e determinanti in questa storia. In particolare Alessandro Gazoia, con il suo Il Web e l’arte della manutenzione della notizia, pubblicato da Minimum fax in ebook e più recentemente Pier Luca Santoro, per Informant, con il suo I giornali del futuro, il futuro dei giornali. Si tratta di una discussione e una ricerca che mira a trovare quei modelli che sembrano funzionare, reggere economicamente, sfornare contenuti di qualità, innovare anche le forme di scrittura e di fruizione e poter svolgere un ruolo di riferimento per altri percorsi.

In questo studio continuo, la domanda delle domande è sempre la stessa: con l’evoluzione di Internet, la crisi della pubblicità, i cambiamenti del mestiere, esiste un futuro per l’industria dell’informazione? Nessuno ha una risposta univoca e nel dibattito entra anche la casa editrice Mimesis, che ha pubblicato un libro di Andrea Daniele Signorelli, intitolato Tiratura illimitata. Dal crowfunding ai native ads: inchiesta sul giornalismo che cambia (pp. 97, euro 6). Si tratta di un volume di rapida lettura, composto anche da interviste. L’autore infatti pone quesiti a esponenti di tre diversi progetti che l’autore nella sua biografia dice di aver attraversato da un punto di vista lavorativo: Blogo, Gli Stati Generali e cheFare.
Dati questi tre punti di partenza, l’autore si concentra su tre tipologie di business model che sembrano funzionare: quello basato sull’advertising tradizionale, quello che fa perno sul native advertising e infine quello costituito dalla gestione di una comunità di riferimento che consenta sperimentazioni.

Nel libro ci sono alcuni limiti. L’autore, dialogando con i suoi interlocutori, lascia intendere alcune cose, ad esempio che il meccanismo tradizionale dell’advertising basato sui click (e sui famosi gattini e le colonne di destra) stia ormai funzionando. Ci sono molti dubbi al riguardo e basterebbe chiederlo ai direttori delle sezioni internet di grandi quotidiani nazionali. Magari funziona per Buzzfeed, non per tutti. In secondo luogo, il native advertising, di cui Jacopo Tondelli de Gli Stati Generali prova a sfatare la pericolosità, consente il suo utilizzo solo a quel gruppo editoriale o quel giornalista che è già di per sé un brand, che ha già creato un rapporto di fiducia con i suoi lettori, che possono fidarsi di lui, o del gruppo, anche se un contenuto è «sponsorizzato» da un’azienda (e in questo contesto manca qualsiasi riferimento alla trasformazione del giornalista anche in una sorta di ufficio stampa o pr di se stesso).

Il ragionamento sul native advertising poteva spingere Signorelli ad arrivare al nucleo fondamentale: questo tipo di pubblicità potrebbe essere determinante per gli smartphone la cui esistenza nel volume quasi non viene considerata. E con esso si scordano molte esperienze editoriali abbastanza recenti, nel loro sviluppo via web (come ad esempio Internazionale e Vice). Gli smartphone e il loro utilizzo stanno già cambiando il mercato dell’informazione, ponendo numerosi interrogativi – e possibilità – per il futuro sia in termini di scrittura, sia in termini di pubblicità.