Cara redazione del manifesto,

ieri Il Giornale diretto da Alessando Sallusti ha pubblicato un articolo dal titolo «Prove (e foto) dei legami tra i trafficanti e le Ong. ’State pronti, arriva gente’».

L’articolo in questione mi qualifica come «giornalista de il manifesto» imbarcato sulla Iuventa, la nave della Ong tedesca Jugend Rettet che è stata posta sotto sequestro dalle autorità italiane in seguito all’indagine avviata sulle Ong che operano nel Mediterraneo al fine di salvare vite umane. Non sono mai stato giornalista e tanto meno mi sono mai presentato come tale.

Mi sono imbarcato sulla Iuventa per studiare in qualità di docente universitario la situazione nel Mediterraneo, per conoscere e ascoltare le storie di coloro che attraversano il mare. Sulla Iuventa e sul progetto che ne ispira le attività ho scritto due articoli: uno sul progetto che ne ispira le attività, l’altro sulla mia esperienza a bordo. Entrambi sono stati accolti da il manifesto, che ringrazio per la disponibilità. Non sono reportage giornalistici, sono piuttosto riflessioni sul tema. Si trovano anche su Facebook.

Il Giornale mi fa il dono avvelenato di attribuirmi un «ruolo ambiguo» nella vicenda. È un ruolo che naturalmente non ho mai avuto. L’unica ambiguità è nell’operazione scandalistica e nell’uso infamante che viene fatto di questa vicenda.

La mia presenza a bordo della nave è legata esclusivamente a un’attività di ricerca sulle migrazioni e su coloro che operano in questo campo, che svolgo ormai da diversi anni. Un campo che più d’uno in Italia ha evidentemente deciso di eleggere a strumento di una battaglia pre-elettorale, anche in vista di una ridefinizione identitaria e angusta della politica stessa. Sembra che funzioni, visto che a fronte di altri gravi problemi politici ed economici di cui pure non mancano prove, l’attenzione mediatica si concentra ora in maniera ossessiva sulle temibili Ong.

Nell’articolo del Giornale viene citata anche una «chiacchierata» nella quale avrei detto (nel testo c’è un virgolettato) che gli sconfinamenti in acque territoriali libiche erano un prassi abituale per la Iuventa. È un’affermazione che non riconosco affatto come mia, anche solo per il fatto di non avere né le competenze né l’autorità necessarie per affermazioni di questo tipo.

Addirittura avrei detto che «la loro Ong si trovava in quelle zone da anni», mentre chiunque era a conoscenza che le missioni della Iuventa sono iniziate solo lo scorso anno.

Sono stato tre settimane sulla Iuventa per studiare, e mi trovo confrontato qui con un giornalismo che senza uscire mai di casa, fa delle intercettazioni telefoniche messe a disposizione chissà perché da una Procura della Repubblica un uso a dir poco strumentale e fuorviante. Meno male che astratti erano gli intellettuali. Questa esasperazione porta ai toni roboanti dell’articolo («incredibili dettagli della complicità» oppure «episodi inquietanti»).

Ciò che nelle carte di sequestro della Iuventa è un rilievo che il dovere d’ufficio impone, diventa nella fantasia giornalistica indizio di chissà quale colpevolezza umanitaria. Manca qui lo spazio per una decostruzione puntuale della ricostruzione che viene fatta del lavoro Ong nel Mediterraneo. Posso però dire che l’articolo del Giornale mischia missioni e periodi differenti, e quindi inevitabilmente persone diverse di una Ong fatta – lo ricordo – di soli volontari. Nella missione a cui ho partecipato le barche sono state sempre distrutte. Un «dialogo tra trafficanti e la Ong» rasenta la cattiva fantascienza: uno dei pericoli costanti in mare per i migranti è costituito dall’arrivo degli «avvoltoi dei motori» che recuperano al largo i motori quando i gommoni sono ancora pieni di migranti, una situazione estremamente pericolosa che ho avuto modo di documentare. Ricordo ancora il giubilo degli uomini e delle donne della Iuventa quando un giorno un elicottero militare della missione Sophia ha finalmente messo i fuga questi soggetti. Si chieda piuttosto Il Giornale perché quei ceffi sono lì, se non perché l’Ue ha praticamente dismesso la sua presenza in alto mare.

In ultimo due rilievi: per Il Giornale «si scopre che» avrei mediato da bordo con Mrcc, la centrale di coordinamento di Roma. Tutto qui? Ma se me l’avessero chiesto, glielo avrei detto io stesso: mi sono offerto io stesso di parlare in italiano con un ufficiale italiano per comunicare il timore del capitano a trasportare sino a Lampedusa un gruppo di migranti, con diversi bambini piccoli, in condizioni di maltempo.

Inoltre dalle intercettazioni al sottoscritto che Il Giornale pubblica si evince che «per la Jugend Rettet l’emergenza migranti è l’occasione di profilarsi dal punto di vista politico e per far emergere una presunta violenza come verità delle istituzioni». Decontestualizzare le affermazioni è sempre una forma di violenza, in questo caso lo si fa fottendosene allegramente dell’argomentazione, scusate il francesismo.

L’idea che intendevo esprimere è che la vera politica passa oggi – come ci insegnano grandi pensatori della contemporaneità – per la vita umana e per una politica dei corpi. Senza di questa non sarà possibile né ora né mai una «buona vita» per ciascuno. Inoltre facevo riferimento all’assenza delle istituzioni e in particolare di quelle europee, non certo alla violenza, come spinta propulsiva per la Iuventa. I cui organizzatori si sono sempre detti interessati a mettere termine alle loro operazioni non appena ci fossero state le condizioni politiche per garantire una soluzione accettabile alle domande che l’epoca del Grande Esodo inevitabilmente pone a tutti noi.

*I due articoli a bordo della Iuventa per il manifesto: «Peschiamo umani» e «Una luce fioca balla nel mare»