L’apparizione della pittura di Giorgione, all’inizio del Cinquecento, è un punto di svolta capitale non solo nella storia della pittura veneta, ma della pittura tout court. Giorgione è tuttavia un’artista dalla vita intensa e brevissima, ma molto poco documentata, con un catalogo ristretto e molto selezionato. È perciò un’acquisizione notevole, quanto un nuovo Leonardo a Firenze, il fatto che le Gallerie dell’Accademia di Venezia si siano arricchite recentemente di un nuovo dipinto di Giorgione. Si tratta del cosiddetto Concerto Mattioli (1507 circa), già appartenuto a Gianni Mattioli, il grande collezionista milanese amico dei futuristi. Attribuito al pittore veneto da Longhi nel 1944, fino a poco tempo fa non era facile vederlo e ora gli eredi lo hanno lasciato in deposito quinquennale al museo veneziano. Un’operazione di grande valore critico, perché il quadro sarà esposto insieme alla Tempesta e alla Vecchia, rendendo possibile il confronto fra tre capolavori di Giorgione appartenuti al celebre «camerino delle antigaglie» di Gabriele Vendramin, cioè uno dei «luoghi sacri» del collezionismo veneziano del Cinquecento.
Sarà solo una coincidenza, ma è impossibile non notare che, mentre arrivava a Venezia il quadro di Giorgione, a poca distanza si finiva di stampare Giorgione e l’Umanesimo veneziano di Alessandro Ballarin (7 tomi, Edizioni dell’Aurora, pp. 2.838, tavv. 3.967). Un’opera immensa, in sette grandi tomi, conclusione di un progetto di cui si parla da almeno quarant’anni. Un lavoro anticipato in conferenze, dispense universitarie, opuscoli introvabili e cataloghi di mostre che, nel piccolo mondo degli studi storico-artistici, sono diventati davvero leggendari per la ricchezza di novità così come per l’ardua reperibilità delle informazioni. Non sarà più così: ora tutto è raccolto, ordinato e annotato. Come non segnalare quindi, aprendo i volumi, che la provenienza del Concerto Mattioli dalla collezione Vendramin è proposta proprio dallo stesso autore già nel 1981-’82 (tomo I, pp. 229-234)? La storia critica di questo e altri dipinti ora si può raccontare un po’ meglio e si può recuperare anche il contesto in cui quei risultati sono entrati in circolazione.
La fatica in tipografia
Benché presentato alla Pinacoteca di Brera a fine maggio, il Giorgione di Ballarin tuttavia non era concluso fino a pochi giorni fa. Durante la stampa – che avrà fatto davvero gemere i torchi – è finita la carta per il settimo e ultimo tomo. Numero quanto mai simbolico, come se la tipografia volesse darci il senso della difficoltà, della fatica e della mole di questo lavoro, che raccoglie e riordina cinquant’anni di scritti giorgioneschi e mette in scena un colossale racconto, per immagini, didascalie, cronologie e indici de La pittura a Venezia negli anni di Giorgione e del giovane Tiziano (1485-1524), come recita il sottotitolo del saggio introduttivo. Gli anni in cui, come sottolinea Ballarin, a Venezia si inventa la pittura moderna.
Un’impresa editoriale, dunque, fuori da qualsiasi schema, circondata da un’aura mitica, che sembra avere prodotto ora una sorta di piramide nel deserto che sfida il tempo e lo spazio (non solo quello fisico degli scaffali). Ma si fatica davvero a parlarne perché è inevitabile avere un punto di vista del tutto parziale: pochi hanno visto tutti i volumi e forse li vedranno. E ancora meno che pochi li hanno letti e forse li leggeranno. Non solo per il prezzo.
Il Giorgione è un’opera molto complessa composta con apparente semplicità di due tomi di saggi e cinque di tavole, quasi quattromila, «per lo più a colori». Nel frontespizio, la presenza di tre curatrici, Laura De Zuani, Sarah Ferrari e Marialucia Menegatti (che aveva curato anche il Leonardo a Milano), sta proprio a segnalare la difficoltà dell’impresa e la quantità di energie per poterla realizzare. Nei primi due tomi sono raccolti i saggi sulla pittura veneziana dagli anni sessanta del Novecento ad oggi, dal Palma il Vecchio (1965) dei gloriosi «Maestri del Colore» e dal Tiziano (1968) dei «Diamanti dell’arte» alle schede della mostra Le siècle de Titien del Louvre (1993) nel primo tomo. Nel secondo trovano posto invece la riedizione de La compagnia degli amici (Einaudi, 1982) seguita dai saggi allora rimasti inediti dedicati al rapporto di Giorgione e i suoi due «creati» con la cultura filosofica e filologica dei committenti negli anni attorno e subito dopo l’anno 1500.
Le maggiori novità sembrano però racchiuse soprattutto nei cinque tomi di tavole. Qui, i brevi testi delle «Note alle tavole» accompagnano alla lettura di centinaia di immagini, raccolte in capitoli o sequenze narrative, come fossero storyboard di un grande film sulla pittura a Venezia tra fine Quattro e inizio Cinquecento. E gli attori principali dei capitoli, accanto ai protagonisti Giorgione e Tiziano, sono Sebastiano del Piombo, Giovanni Bellini e Lorenzo Lotto, Bosch, Dürer e Carpaccio, Fra Bartolommeo, Giulio e Domenico Campagnola, Palma il Vecchio e Cariani, il misterioso Morto da Feltre e perfino Raffaello, che ha una parte davvero cospicua. Grazie a didascalie e indici di incredibile cura filologica il film non è muto, ma ci viene suggerito un grandioso copione storico, da cui possiamo isolare dettagli e confronti per nuove autonome sequenze, come ci trovassimo davanti anche un enorme archivio.
L’indice dei tomi di tavole dà l’idea, appunto, della vastità dell’impianto narrativo con cui è costruita questa sezione del Giorgione, che dialoga solo fino a un certo punto con i testi raccolti nei primi due tomi. Ben presto il montaggio delle immagini se ne discosta e il racconto prosegue autonomamente in un dialogo silezioso conchi riesce a seguire un pressoché infinito corpo a corpo con la pittura, interpretata attraverso riproduzioni, dettagli, accostamenti e sequenze.
Lettura dello stile, principio-guida
Nei tomi delle tavole la parola lascia completamente il campo alla lettura dello stile, principio guida da cui, secondo Ballarin, non si può prescindere nel confronto con i dati oggettivi e materiali dei dipinti. Tutta l’opera sembra ribadire, come in un testamento, questo insegnamento dei grandi maestri della giovinezza di Ballarin: dare, cioè, «una grande importanza all’analisi delle forme come criterio di riordino dei materiali figurativi», poiché i dati oggettivi possono essere messi «in discussione se in contrasto con solide costruzioni nate da un attento spoglio dei dati figurativi e da un loro ampio incrocio».
Un’opera che affonda quindi le radici (e le ribadisce con tutte le forze) nella connoisseurship di fine Otto-inizio Novecento, che però sembra dialogare anziché con noi, con i Berenson Bode Suida Gronau Longhi Morassi Wind Panofsky Warburg del passato o con quelli che verranno. Oppure, fuori da qualsiasi schema, preferisce confrontarsi solo con l’occhio di un grande fotografo come Mauro Magliani con cui condividere l’emozione per la pittura, o, come diceva Bianchi Bandinelli, per la «forma artistica» punto di partenza per l’intuizione critica.
Questo Giorgione è molto di più di una raccolta di saggi e di immagini. Dopo i volumi su Dosso (1994-’97) e la Ferrara del duca Alfonso (2002-’07), il troncone meraviglioso di Jacopo Bassano (1995-’96), dopo Romanino e la grande pittura bresciana (2006) e, soprattutto, dopo l’immenso Leonardo a Milano (2010), quest’ultima impresa può sembrare la summa delle idiosincrasie e delle convinzioni di Ballarin, che parrebbe affidarle a una prossima aurora, come in una navicella spaziale lanciata verso l’ignoto.