Pesci colorati si arenano sulla sabbia di grandi acquari, elefanti scavano buche nella savana, mentre i salotti borghesi si popolano con intere colonie feline o canine. Nelle Stanze del vetro – lo spazio espositivo di 650 mq nato dalla sinergia tra Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung, sull’isola di san Giorgio maggiore – è approdato parte del festoso zoo di Murano che Pierre Rosenberg ha allestito negli anni, seguendo una sua magnifica ossessione che non ha disdegnato neanche infinitesimali insetti, divertissement da fornace, lillipuziani souvenir. Settecentocinquanta di questi animali – che rappresentano solo un assaggio della raccolta messa su in trent’anni veneziani – costituiscono il corpus della stravagante mostra a cura di Giordana Naccari e Cristina Beltrami (visitabile fino al 1 agosto, anche online in un virtual tour 3d, gratuitamente, da casa).
Se nell’opera teatrale The Glass Menagerie Tennessee Williams ha voluto testimoniare – attraverso la messa in scena di quello «zoo di vetro» del titolo – la fragilità di un’istituzione famigliare, ma soprattutto la vulnerabilità dei sogni e desideri di una ragazza «imperfetta» come Laura, che si rifugia nella cura del bestiario per trovare sollievo, certamente Rosenberg ha lavorato intorno alla sua collezione con ben più leggerezza, attratto da una tecnica millenaria in grado di applicare una raffinata maestria anche a microcosmi e micro-esseri (in)animati. E il suo bestiario muranese, lungi dal testimoniare gotiche simbologie dello spirito e della carne, somiglia a un mondo giocoso in miniatura, un diorama che reinventa i luoghi del pianeta, con i cieli abitati dagli stupefacenti uccelli di Lundgren o Zuccheri (Venini) e i mari trasformati in acquari da Alfredo Barbini.

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Nelle Stanze del Vetro, sono esposti i suoi animali muranesi. Può dirci come cominciò questo suo interesse particolare per un’Arca di Noé che ogni anno andava aumentando di numero?
Ho una vita immersa in diversi mestieri. Sono innanzitutto un funzionario statale: ho passato quarant’anni al Louvre come curatore del Dipartimento di dipinti, poi in qualità di presidente e direttore: sono stati anni di lavoro a tempo pieno, anni affascinanti che hanno seguito il Louvre nella sua trasformazione fino a quando è diventato un museo citato spesso come esempio. Sono anche uno storico dell’arte. E in questa veste, mi sono dedicato a Le Nain, La Hyre, Watteau, Chardin, Fragonard, David, a tanti artisti francesi e italiani ma soprattutto a Poussin, di cui sto attualmente curando il catalogo ragionato dei dipinti. Infine, sono un collezionista. Fin da piccolo creavo raccolte di piume di uccelli, francobolli, biglie, in seguito sono passato ai dipinti e ai disegni (questi ultimi avevano prezzi molto bassi) e, da quando vivo a Venezia una settimana al mese, colleziono gli animali in vetro di Murano. Perché questi soggetti piuttosto che vasi o lampadari? Perché amo gli animali, soprattutto i gatti.

Ce n’è uno che si può definire il suo «daimon»?
Ho una grande passione per le balene. Le mie si trovano tutte sul tavolo della mia sala da pranzo, a Venezia. Ho però anche un debole per un bassotto rosso realizzato da Martinuzzi: quel cane, d’altronde, è stato uno dei miei primi acquisti.

L’arte del vetro vive da anni una crisi sia generazionale che economica. Come crede che si possa risollevare il settore?
Nutro grandi speranze. Credo nella possibilità di un reale rinnovamento di Murano che avverrà grazie allo «stimolo» della creatività dei suoi maestri vetrai. Murano non può che giocare nel mondo la carta vincente della sua qualità.

Si dice che ogni collezione sia un puzzle ideale da comporre, un universo fittizio, parallelo a quello reale. Lei in piena emergenza sanitaria, ha deciso di donare la sua raccolta, Cosa l’ha spinta?
Sì, è vero. Oltre ai miei disegni e dipinti, ho donato la parte parigina della mia collezione di animali in vetro di Murano (in tutto sono duemila, ndr) al Musée du Grand Siècle di Saint-Cloud, alla periferia di Parigi, che aprirà al pubblico nel 2025. È dedicato al XVII secolo francese ma anche ai collezionisti che vorranno farvi confluire le loro raccolte. Una collezione esprime qualcosa di molto personale ed è importante che non venga dispersa, che mantenga la sua unità nel tempo (questo «cabinet» permette libertà nella presentazione delle opere, facendole convivere in spazi intimi, l’intento è quello di far circolare lo spirito del collezionista, ndr).

La sua preferenza è sempre andata al Seicento, in special modo ai disegni. Cosa ha trovato nelle abilità creative di quel secolo che l’ha sedotta rispetto ad altri periodi storici?
È vero, prediligo il Seicento francese e italiano, sia dipinti che disegni, ma mi piace molto anche il Settecento (sempre francese e italiano). Nella mia collezione ci sono, indistintamente, dipinti e disegni di Guercino, Romanelli, PF Mola, Passarotti, Antonio de Bellis, Ignazio Stern, Pompeo Batoni, senza disdegnare artisti più recenti come Fortunato Duranti, Fortunato Depero o Modigliani. Ho scritto di diversi grandi pittori italiani, spesso erano francesi strettamente legati all’Italia, come Julien de Parme o Subleyras.

Lei è stato presidente e ha diretto una istituzione fra le più importanti al mondo come il Louvre. In questo periodo pandemico fra riaperture, chiusure, flussi di turismo bloccati, i musei sono obbligati a ripensarsi, a mutare la loro pelle. Devono reimmaginarsi diversi…
I musei stanno attraversando tempi assai difficili. La domanda è: come comportarsi sia con i turisti che con i visitatori? Il primo non rischia di cacciar via il secondo? Come si arriva a coloro a cui la scuola non ha aperto gli occhi sulle bellezze delle opere d’arte? È un compito arduo quello che spetta alla giovane generazione di storici dell’arte e curatori, sia in Francia che in Italia. La nostra epoca li mette a grande rischio, ma io ho fiducia in questa ultima generazione che – ne sono convinto – salverà questa istituzione, offrendole una nuova vita.