Mario Dondero camminava sempre sul filo come un equilibrista. Miracolosamente e con gioia sembrava un uomo di un altro mondo, un’utopia vivente. Chi ha avuto il piacere di conoscerlo sa intimamente che non c’è stato fotografo più teatrale di lui, per definizione quello che ha raccontato con più empatia la commedia umana.

Ogni suo scatto prevedeva tutto un iniziale ammaestramento, cambi di posizione, rovesciamenti di prospettiva, nelle foto di gruppo era capace di tenere in posa per molto tempo persone prigioniere del suo fascino e della sua gioiosa simpatia, dominava lo spazio scenico come un vero regista della vita. Prima di premere il pulsante doveva combinare lo spazio scenico della sua rappresentazione, far sì che corpi e cose fossero plasticamente in armonia e con la luce giusta in chiaroscuro.

Non sorprende quindi che tra i suoi tanti giacimenti e ritrovamenti nell’Archivio di Altidona, solo una prima memoria emersa, affiorino molti reportage che raccontano attori, artisti di strada, giocolieri, mimi e clown. Queste prime cinquanta immagini, messe insieme da Pacifico D’Ercoli e Laura Strappa, oggi sono una mostra, Il grande teatro del mondo (Montegranaro, Galleria PhilosopArte, inauguratasi all’interno del Veregra Street Festival, vistabile fino al 31 luglio) e un catalogo con testi, tra gli altri, di Claudio Ascoli, Emanuele Giordana e di un attore che Mario amava molto per intima consonanza, Ascanio Celestini.

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Sotto il tendone
Un altro aspetto teatrale di Dondero sono stati i suoi innumerevoli e sorprendenti «colpi di scena». I palcoscenici, diciamo, potevano cambiare, essere quello di una manifestazione politica, gli immediati dintorni di una fabbrica del nord, corpi di scioperanti alla Citroen, gli ospedali di Emergency, un gruppo di scrittori come quelli del Nouveau roman, da lui stesso storicizzati in una foto ormai destinata alla mitologia della letteratura (diventata oggetto anche di uno spettacolo teatrale), ma quando lui arrivava, la macchina fotografica in spalla, quell’aria da inguaribile flâneur, la scena cambiava improvvisamente. Mario portava dentro le situazioni un’energia che un po’ somiglia a quella degli attori che compiono sempre la loro metamorfosi, in se stessi e nel pubblico, legati al miracolo, alla magia dello spettacolo.

«Era un folletto» mi raccontò una volta Giovina, la moglie dello scrittore Paolo Volponi, che lo aveva molto frequentato a Roma. Quel soffio di vita che alimentava scattando fotografie non si era consumato negli anni, come succede agli attori gli piaceva piacere, voleva bene al suo pubblico di amici ammirati, per i quali si esibiva persino cantando canzoni melodiche come La vien en rose, o politiche come Fischia il vento, memoria sonora della sua vita partigiana in Val d’Ossola.

Quindi non stupisce l’attrazione nei confronti per esempio degli artisti di strada, per un avventurista come Dondero, infaticabile viaggiatore incantato, formidabile conoscitore e penetratore di luoghi e nomade per scelta estetica, potremmo dire, sempre sulle strade del mondo con uno sguardo dal basso, ad altezza d’uomo.
Tra le persone ritratte c’è anche il cantante Luca che a un certo punto è arrivato nella nostra Fermo senza andarsene più, diventato ormai una presenza buona e rassicurante, anche quando non si esibisce con la chitarra ma sta seduto fuori dall’antro di un negozio silenzioso e quieto. Sicuramente degli artisti di strada a Dondero piaceva anche il loro vivere nella libertà, l’invenzione quotidiana della vita, la felice precarietà che nella mostra ritroviamo in alcuni scatti, come il suonatore di fisarmonica al Salon International de l’Agriculture di Parigi, o sempre nella capitale francese il duo de La Manivelle che si esibisce su un marciapiede di Montmartre, come l’allegro suonatore di organetto a Berlino.
Non mancano i ritratti di attori, credo fotografati non solo per il fatto di esercitare sui palcoscenici del mondo la cosiddetta arte drammatica, ma per il valore altro che esprimono agli occhi di questo fotografo onnivoro di realtà e molto legato allo scopo politico. Sono colti fuori scena, nel momento in cui si ritirano nel camerino come un giovane Ascanio Celestini, o nel momento in cui si stanno preparando per entrare in scena come il Dario Fo in bretelle che sta allacciando la cravatta, la maschera facciale di David Clair al trucco.

La vita burlesca
Tra le immagini in mostra c’è anche una «celebrità» da un punto di vista fotografico, cioè l’istantanea di Eugene Ionesco con gli interpreti del suo testo più noto e rappresentato, caposaldo del teatro dell’assurdo, La cantatrice calva. Come molte foto di Dondero, anche questa è legata a un racconto memorabile, un’aneddotica moltiplicata come in un telefono senza fili nelle affettuose dicerie, a una messa in scena giocosa, anche questa teatrale, che Mario orchestrò in modo magistrale e burlesco. A me la raccontò così, con i modi del ragazzino che l’aveva combinata grossa: «ero riuscito a portargli persino a casa sua gli attori della sua compagnia che recitavano La cantatrice calva. Ricordo che Ionesco abitava al Trocadero, al pianterreno. Arrivammo in due taxi con gli attori in abito di scena e raggiungemmo la sala da pranzo, con gli attori vestiti, tutti seduti a tavola; così quando lui, sua moglie e sua figlia andarono a pranzare ebbero questa sorpresa». Ultime e tutte naturalmente a colori le foto della sua Africa, i danzatori un villaggio nigeriano, i Griot del Mali, lo spirito selvaggio di un rito animista.

Laura Strappa nella scelta del titolo e nel pensare al rapporto di Dondero con il teatro, lei che è stata la sua ultima compagna, scrive giustamente nel catalogo che «gli attori del teatro di Dondero sono dentro la vita, non ripiegati a meditare sulla caducità dell’essere, ma protesi sul terreno del tempo», e cita Shakespeare in una frase fulminante quanto esatta per descrivere lo spazio creativo di questo straordinario fotografo: «Tutto il mondo è un teatro/e tutti gli uomini e le donne non sono che attori/hanno le loro uscite e le loro entrate».