«Why don’t you fight?!». Questo verso ripetuto e scandito era piazzato quasi sempre alle prime battute, negli ultimi concerti di Amiri Baraka(in formazioni varie, e anche con il Dinamitri Jazz Folklore del sassofonista livornese Dimitri Grechi Espinoza). Un verso spiazzante, detto così, alla seconda persona; uno di quegli «spostamenti» cari all’artista afroamericano morto ieri a Newark, la città dove era nato nel 1934, dove aveva vissuto e lottato per la maggior parte della sua vita, e dove per le elezioni 2014 si presenta come candidato sindaco suo figlio, Ras Baraka.

Fight: combatti. «Mentre pensi, mentre ami, mentre parli, mentre nuoti», ci aveva detto ridacchiando in quell’occasione estiva (eravamo in Sardegna, al festival Jazz di Sant’Anna Arresi: si nuotava tutti i giorni). Se tra migliaia di anni, quando le leggi del nostro mercato al ribasso qualitativo avranno distrutto tutti i supporti per sentire la musica e gli esseri viventi del nostro universo si chiederanno cosa mai fosse questo Jazz, cosa esprimesse questa breve parola, forse lo potranno comprendere al meglio leggendo una pagina di Amiri Baraka. Uno tra gli oltre 40 libri scritti tra poesie, saggi sociologici, scritti politici, trattati di musicologia, ritratti di artisti straordinari. Anche una pagina a caso, perché il suo linguaggio è il jazz: prosa e poesia senza distinzioni, alto e basso, lingua che sgorga dall’intimo ma che si costituisce nell’ Interplay; metalinguaggio onomatopeico che si definisce grazie a non-regole, esplosione del libero arbitrio, suono,intuizione e coerenza, liberazione dell’improvvisazione. Anti-accademia pura: colta, responsabile, politica.

Baraka era stato immune alle ricadute mainstream della beat generation e della cultura del «Village» degli anni ’60, dove si era riconosciuto e definito inzialmente come artista (suoi scritti sono contenuti anche nell’antologia di F. Pivano Poesia degli ultimi americani, Milano, Feltrinelli 1964). Se ne era distaccato seguendo un’impellenza artistica politica, identitaria, che lo avrebbe avvicinato per un lungo periodo alle teorie del nazionalismo nero e che lo farà approdare in seguito ad una personale sintesi marxiana.

Se da una parte l’arte di Baraka, la sua modalità di approccio al discorso nonché la sua visione sociopolitica è prossima al flusso di coscienza tipico delle innovazioni della letteratura europea novecentesca, dall’altra parte è manifestazione di una lingua che si è costruita nella dimensione orale, di un’ immaginazione illimitata e di una psicologia libera, faccenda non secondaria per una coscienza formatasi all’interno di un gruppo, quello degli afroamericani, che da centinaia di anni veniva vessato fisicamente,culturalmente e psicologicamente; un popolo che fino ad allora (probabilmente fino a Blues People, pubblicato nel 1963) non aveva saputo bene definirsi, raccontarsi, analizzarsi, mettersi in gioco. Per Baraka forme, accenti, metafore, costruzioni, composizioni, sono non solo prossime al linguaggio musicale, non solo prendono della musica andamenti e racconto, ma sono musica. Musica che risuona dentro e dietro alla parola, talvolta perfino dichiarata, come una sorta di colonna sonora. Per dirla più precisamente, è il pensiero (poetico e non) che sgorga come musica, come jive, il chiacchiericcio random e gergale che spesso diventa gioco linguistico, prassi sempre viva nello sviluppo della cultura nero americana. Musica autonoma, primigenia, come lo è la percussione, il battito, che in Baraka diventa la scansione metrica che dà forma al pensiero. Esistere, lottare e creare, senza distinzioni, «Here is there and there is here/Go deep, go deep, go deep».