C’è una piccola confusione ideologica e cruciale nel libro di Alessandro Baricco The Game (Einaudi, pp.336, euro 18). Consiste nel confondere il potere come potenzialità di diventare qualcosa, di ottenere un risultato desiderato e il potere come esercizio di dominio e sottomissione sul proprio oggetto.
Quando nel libro si parla di tecnologie digitali come nuove potenzialità, caleidoscopiche possibilità di entrare in relazione con gli altri e di rappresentare il mondo, si omette di considerare quali forze e quali meccanismi di controllo costituiscano l’infrastruttura che determina il cambiamento e quali siano le sue conseguenze per la collettività. Si tratta di piattaforme del capitale, governate da ex giovani studenti di ingegneria divenuti all’improvviso potenti, che si percepiscono senza limiti, e pensano di risolvere ogni problema come fosse un cubo di Rubik.

AL NETTO delle imprecisioni che punteggiano la prima parte della ricostruzione storica della nascita della rete, la tesi di Baricco è basata su una giusta intuizione. La rete Internet e tutte le successive tecnologie che l’hanno resa così importante per la vita delle persone (dalla posta elettronica, al web, dai blog ai social network, agli strumenti video sharing, a Netflix alla radio digitale) sono le modalità di un nuovo sistema autoriale, la riorganizzazione di dispositivi editoriali multimediali per catturare e diffondere la creatività distribuita tra gli utenti. La ricostruzione su questo punto è interamente condivisibile. Eppure non tutto quadra.
Baricco spiega la rete come un gioco elettronico, seguendo Stuart Brand e il suo Whole Earth Catalogue. Il titolo inglese del volume segnala una resa a una colonizzazione ormai compiuta. The Game sarebbe la via d’uscita di un gruppo di giovani pensatori liberal americani dagli orrori del Novecento. Non più guerre, non più bombe, non più razzismi, non più campi di concentramento.
La tecnologia digitale della comunicazione con la sua forza globalizzatrice dovrebbe rappresentare lo strumento di emancipazione dal Novecento guerrafondaio. Ma quel secolo è stato anche altro. Una rivoluzione che metteva in discussione il pensiero unico del capitalismo e del mercato, di là da come poi si è incarnata e trasformata. Un tentativo di decolonizzazione dell’Africa, sia pure complicato e parziale. Le lotte e le conquiste della classe operaia in termini di diritti e dignità. Un innovativo progetto di redistribuzione delle risorse, attraverso il potenziamento del welfare e di un sistema di tassazione più equo. Il sessantotto della contestazione con le sue battaglie contro l’autorità. Le conquiste dei movimenti femministi al voto e a un fragile, ma innegabile riconoscimento di pari opportunità, pur nella diversità. La fine, almeno sulla carta, di tutti i comportamenti di discriminazione razziale, e molto altro.
La rete stessa è un’invenzione del Novecento, costruita con i mezzi messi a disposizione per le innovazioni scientifiche che caratterizzarono la politica della scienza del dopoguerra negli Stati Uniti.
Nel libro si afferma che i giovani tecnologi artefici della rivoluzione digitale non avessero un’ideologia precisa, se non la fuga da quel che era accaduto. Ritengo, invece che l’ideologia ci fosse, era quella della computabilità: la possibilità di rappresentare ogni problema in modo formale e di risolverlo attraverso un calcolo. La logica della semplificazione, di cui pure nel libro a lungo si discute.

NELLA RICOSTRUZIONE della rivoluzione digitale del libro The closed world (Mit Press, 1996), Paul Eduards sosteneva proprio la tesi opposta, cioè che queste tecnologie furono figlie della Guerra Fredda, precisamente di quel Novecento da cui, secondo Baricco, dovevano aiutarci a fuggire.
Uno dei temi caldi del libro è la disintermediazione con successiva distruzione delle élite precedenti, ma – sia pure trasversalmente – l’autore si autoconfuta riconoscendo che quella tecnocratica è una nuova élite potente, tanto più, quanto più è nascosta. Si tratta piuttosto di un passaggio di potere da una vecchia élite, che certo non rimpiangeremo, a un nuovo ferreo, minuscolo, segreto gruppo di potere English-speaking capace di colonizzare persino le percezioni.

NEL VOLUME SI SUGGERISCE la prospettiva salvifica di una post-esperienza mediata dalla macchina ma non meno vera, la cui verità è una dinamica che si coglie come un costante mutamento, dove quel che conta è saper infiorettare una piccola notizia vera in un mare di sciocchezze scelte per attrarre l’attenzione, tanto nessuno ha tempo per riflettere. Il Game, infatti, prevede di partecipare a una partita individuale senza interruzioni, senza tutele, senza regole, intessuta di punteggi e sconfitte.

LA POSTA IN GIOCO è la dimensione narcisistica per eccellenza del riconoscimento, o almeno della riconoscibilità di chi partecipa. Il meccanismo vale per chi influenza e per chi è influenzato, uniti dalla superficie instabile su cui galleggiano. Il Game è dominio della retorica, o della narrazione, di uno storytelling che è reale perché va in scena, non necessariamente perché sia connesso con gli eventi accaduti.
Una storia, cioè, non viene valutata per la relazione che intrattiene con le situazioni che riferisce, ma ha successo se è capace di convincere. Sembra la disputa tra i Sofisti e Platone su cosa sia insegnare la virtù. O la visione homo homini lupus dello stato di natura di Hobbes. Baricco si gioca la carta dello storytelling, scrive un saggio come fosse un romanzo, racconta una bella storia a lieto fine, usando il suo grande dono di narratore, lasciando sullo sfondo gli elementi che non tornano nella sua teoria. Scrive un libro, ma sembra un influencer della post-esperienza di cui discute. Vecchie e nuove élite restano unite dalla necessità di convincere il pubblico di spettatori, come fossero prestigiatori.