Ci sono due immagini che legano quest’anno il nome della splendida città toscana (oltre all’ antica cavea romana, al manierismo sublime di Rosso Fiorentino, e a altre virtù) con il teatro. Una è ovviamente la Compagnia della Fortezza che con Armando Punzo e i detenuti che vi sono rinchiusi, è diventata lungo trent’anni celebre ed apprezzata in tutta Europa, con una serie di rappresentazioni per lo più memorabili, che hanno dato luce nuova e originale alla scena e al modo di elaborarla e costruirla. Ne daremo cronaca tra poco, dopo aver esorcizzato l’altra immagine che (pur senza «apparire» troppo in città, a dire il vero) stende un velo inquietante sull’amministrazione della cultura oggi in Italia.

Il comune di Volterra infatti, dopo aver dato luogo da qualche tempo a un secondo festival (quello del teatro romano appunto, che quest’anno non ha saputo far di meglio che tirare fuori dal cappello la memoria di Lindsay Kemp), ha pensato bene di «mettere a bando» il festival principale, quello fondato da Gassman e Nicolini, e che dopo Roberto Bacci ha avuto per tre decenni direttore Punzo, che lo ha legato alle attività nella Fortezza. La parola «bando» è ormai la formula magica per ammantare di democrazia la scelta di amici, pensate, furberie di una nuova leva di amministratori giunti al potere, magari anche giovani e giovanissimi. L’idea che di cultura tutti siano esperti, non è una chimera solitaria: anzi prospera nelle nuove leve di amministratori (di liste ambiguamente «civiche», ma in certi casi anche di centrosinistra), che pensano di rinnovarla radicalmente, come Renzi docet.

5vis1Compagnia della Fortezza - Le parole lievi foto di Stefano Vaja

È successo in altri comuni della democratica Toscana, ma accade anche a Roma come nelle amministrazioni centrali. Dalla necessità sacrosanta di allargamento e rinnovamento dei bacini di pubblico e degli organizzatori culturali, si arriva presto all’improntitudine e ad assegnazioni poco spiegabili, come le scelte che evocano piuttosto le elargizioni octroyées delle monarchie assolutiste di qualche secolo fa. Per la cronaca, il festival di Volterra di quest’anno, in nome del risparmio, è stato assegnato a un nome che dalla locandina risulta, ora regista, ora autore, ora interprete dei titoli in cartellone. Lasciando il dubbio se sia Pico della Mirandola o un’invenzione di Achille Campanile. Meglio chiudersi nella Fortezza medicea, prigione la cui durezza non è dissimulata dallo spettacolo, come prova ogni spettatore sotto il sole impietoso nel cortile dell’aria lungo due ore dello spettacolo. Armando Punzo, dopo i tanti orizzonti attraversati in questi anni, da Brecht a Genet alle ripetute scorrerie shakespeariane che raffigurano l’universo mondo e tutte le possibili traiettorie che lo possono attraversare, ha sentito il desiderio quasi di volersi «smarcare» da tanta articolata completezza d’immagine.

Appellandosi prima alla Hybris, quasi il peccato originale dell’umanità greca, quello che porta a presunzione e arroganza anche contro la divinità, e che è non a caso all’origine di molti testi tragici classici. Punzo, quasi giocando con l’etimologia (in-solenza come attività non-solita, e quindi creativa e libera) ne rovescia il significato, e si addentra per questo nei territori destrutturati e aperti della scrittura di Borges, lo scrittore argentino infinito giocatore della realtà attraverso la parola.

Sono di Borges infatti le molte citazioni che emanano da non/personaggi di tutte le età, bambini, giovani donne, gli attori della Fortezza in infiniti e allusivi travestimenti. Soprattutto Lui, l’uomo col microfono in mano,tutto vestito di nero, che dirige e officia questo rito di sperdimento. Ovvero lo stesso Punzo, che con sguardo puntuto governa la macchina scenica, tre grandi rettangoli che funzionano prima come materassi ad acqua, e una volta scoperchiati si allargano come bacini di una complessa purificazione, luogo di immersione problematica, bracci di mare che separano reale e non reale. Sono molte e disparate le citazioni dalle opere di Borges, da L’aleph e da molte altre. E non è facile districarsi o dare senso immediato a quei percorsi orali e sinuosi, ovvero trovare il nesso istantaneo con quanto l’occhio va scoprendo: Le parole leggere, citazione borgesiana che va a dare il titolo a questa prima tranche di un progetto che si propone biennale. Tanto leggere, quelle parole, da venir quasi inghiottite dagli occhi. Perché davvero bellissime e stravolgenti sono le «visioni» che in quel cortile carcerario prendono corpo. Fin dall’inizio, prima di attraversare una libreria di tutti i libri del mondo curati da un gruppo di pie donne in nero, una schiera corposa di uomini dai forti colori, incrocia canne lunghissime in uno sbattere violento, in alto sopra le nostre teste.

Come monaci orientali avvolti nei loro paramenti gialli e rossi, torneranno spesso quasi a risvegliare lo spettatore da un sogno impossibile. Con il miracolo di una musica (elettronica, ma anche percussioni e qualche strumento live, opera di Andrea Salvadori) che quei movimenti, gesti, sussulti e respiri, accompagna e ammaestra quasi dando loro spessore. Una sorta di viaggio iniziatico, ancora incerto ed aperto, che si completerà l’anno prossimo. Intanto l’emozione sottolinea il piacere con cui Punzo sembra tornare a sviluppare le sue origini di artista visivo, e la mai celata passione per un teatrante tanto geniale quanto particolare, Tadeusz Kantor. Con lo stesso piglio partecipato e autorevole guida i suoi attori nelle evoluzioni di massa, nelle pause, nella ricerca incessante di quelle Parole lievi.