Quando uscì, nel 2014, I giardini dei dissidenti, Jonatham Lethem ne parlò come di «un libro sul corpo», comprensibile «solo a partire dal corpo, dal suo muoversi nello spazio sociale e politico, con la sua fame, la follia, i paradossi, le dipendenze e l’animalità». Nel suo nuovo romanzo, Anatomia di un giocatore d’azzardo (traduzione di Andrea Silvestri, La nave di Teseo), Lethem spinge alle estreme conseguenze la propria indagine, proponendo l’immagine di un corpo mostruoso, che si sposta in una serie di spazi urbani altrettanto inquietanti.

Da fascinoso giocatore di backgammon – di cui viene sottolineata la somiglianza ora con Peter O’Toole ora con Roger Moore – a freak dal volto sfigurato a causa di un rischioso intervento neurochirugico, costretto a nascondere i suoi connotati sotto una maschera che lo rende simile a perturbante apparizione fantasmatica, Alexander Bruno, il protagonista del romanzo, compie la sua discesa agli Inferi passando da una Berlino funerea a una San Francisco simile a un «fumetto futuristico», per tornare, da ultimo, a quella torrida Singapore in cui si erano poste le premesse della sua rovina.

Anche se Lethem ha ammesso di aver scritto Anatomia di un giocatore d’azzardo spinto da un «persistente interesse per la superficialità», sarebbe sbagliato ridurre il romanzo a una parabola grottesca e a tratti orrorifica sul rapporto tra essere e apparire, maschera e volto. Senza alcun dubbio, le ombre del fantasma dell’opera, della maschera di ferro, dell’uomo invisibile e perfino di quello senza volto dell’omonimo film di e con Mel Gibson aleggiano sul racconto: ma, com’è proprio del miglior Lethem, anche in questo caso tutti i riferimenti – alla cultura pop come al cinema classico americano, alla letteratura, ai fumetti, e alla musica di ogni genere – non fanno che confermare il suo assioma secondo cui «l’invenzione … non consiste nel creare a partire dal vuoto, ma dal caos».

E a partire dal suo caotico – ma anche considerevole – bagaglio culturale, lo scrittore americano inventa questa volta un individuo la cui diversità è talmente raccapricciante da non poter essere incasellata nei normali schemi del vivere civile; solo se nascosta, questa diversità può rientrare in quegli stessi codici culturali che mette in discussione, trovando espressione – e reazione – nel linguaggio della paura. Se sotto la maschera medica che calza dopo l’intervento, in un mondo di emarginati e drop out, Bruno non è oggetto di particolari attenzioni, più tardi, tra gli studenti di Berkeley diverrà «figura totemica», segno vivente del mistero e dell’irraggiungibilità, per tornare di nuovo nell’anonimato, tra i manifestanti che vestono la maschera di Guy Fawkes durante un’azione di protesta.
Il romanzo vive di questi passaggi da una prorompente fisicità – espressa soprattutto, ma non soltanto, dai personaggi femminili – a un senso di fantasmatizzazione e di perdita di identità, adombrata nelle molteplici maschere che appaiono nel testo: prima tra tutte, quella «di pelle attillata, con aperture impuntite per gli occhi e le narici, e un’impassibile chiusura lampo a tacitare le labbra», indossata a Berlino da una donna misteriosa durante l’ultima, disastrosa, partita giocata a viso scoperto da Bruno, allora ancora integro, in una delle scene più conturbanti e al contempo surreali del romanzo.

«Surreale», del resto, è l’aggettivo che più si adatta alle immagini di Lethem, non solo per quanto riguarda le figure umane, ma anche e soprattutto per le ambientazioni, tutte inquietantemente oniriche, sia che si tratti della realtà devastata di Telegraph Avenue, invasa da negozi d’ispirazione infero-apocalittica (il fast food dal programmatico nome Zombie Burger, sorta di «rugginoso meteorite schiantatosi sulla terra», o il caleidoscopico megastore Zodiac Media, piantonato da «punkabbestia scappati di casa, incredibilmente giovani e incredibilmente sporchi») sia che lo sguardo del protagonista, oscurato da una minacciosa macchia che gli ottunde la visione, si posi su una Berlino «città sepolcro» dove, «ovunque camminassi, eri su tombe o bunker, accanto all’impronta fantasma del Muro».

Il surrealismo postmoderno di Lethem esplode nel capitolo più sconvolgente del romanzo, in cui si descrive l’intervento di resezione di un presunto meningioma dal viso di Bruno, attuata mediante la rimozione del volto stesso, e la sua successiva ricomposizione. L’incontro fortuito di una macchina da cucire e un ombrello su un tavolo anatomico evocato da Lautréamont e sempre citato come esempio degli accostamenti inconsueti propri della figurazione surrealista, qui si trasforma nell’incontro, sul tavolo operatorio, di un giocatore d’azzardo privo di connotati con la musica di Jimi Hendrix sparata a tutto volume.
Noah Behringer, il neurochirurgo californiano cinquantenne con sandali e coda di cavallo che, unico al mondo, è in grado di asportare un rarissimo tipo di tumore del viso, opera decine di ore filate al suono della chitarra del suo idolo. Non si tratta solo di una bizzarria volta a rendere ancor più pittoresca la sua personalità, ma del pretesto per abbandonarsi a una particolare fantasticheria durante le lunghe operazioni, quella di salvare, ad ogni nuovo intervento, «ancora una volta ed eternamente», la vita a Jimi Hendrix.

Forse non è troppo azzardato vedere nel singolare chirurgo una maschera dello stesso Lethem, che ha più volte identificato nella perdita prematura della madre il nucleo tematico dominante di tutta la propria opera.

La macchia che opprime Bruno come «un incubo terrificante … un panico viscerale … un frammento di notte che non riusciva a sfregar via», manifestazione appariscente del male oscuro da cui solo Behringer può liberarlo, non può non riportare alla mente il tumore cerebrale che uccise la madre dello scrittore a soli trentanove anni. Né è certo casuale che la madre di Alexander Bruno, come quella del suo autore e come una delle protagoniste dei Giardini dei dissidenti, sia una hippie e che, come la madre di Dylan Ebdus, il protagonista del più conosciuto romanzo di Lethem, La fortezza della solitudine, sia scomparsa improvvisamente dalla vita del figlio.

Proprio come il chirurgo Behringer, volendo penetrare oltre il volto di Bruno Lethem finisce per farne un mostro, ovvero «un essere immaginario che nasce attraverso il linguaggio e, una volta nato, non può essere eliminato dal linguaggio», per usare le parole del critico americano Peter Brooks. Purtroppo, per un mostro nato dal linguaggio di Lethem, esuberante, variegato, ricco di rimandi, sfumature, echi e fuochi d’artificio verbali, è quasi impossibile «rinascere» con altrettanta vitalità e ricchezza in traduzione.

In un saggio della raccolta Memorie di un artista della delusione, Lethem paragonava la sua mente alla stanza dei suoi undici anni, traboccante di libri, dischi, oggetti, e in continua espansione. Ogni suo romanzo è un invito a curiosare in quella stanza, dove nessun reperto ha una didascalia: optare per una traduzione esplicativa piuttosto che evocativa, rovinare la curiosità e la sorpresa del lettore con note a piè di pagina, è come voler mettere ordine in quella meravigliosa – e caotica – camera dei giochi.