C’è innanzitutto il gioco nella proposta di Piero Bevilacqua sulla costituzione di una rete antiliberista che si opponga all’attuale parcellizzazione dei soggetti e dei saperi (il manifesto, 28 gennaio). Il gioco come paradigma del pensiero, opposto dunque al Serio, quell’Ernst hegeliano che indicava il lavoro duro, forte e aggressivo del concetto, serio appunto perché contrario a tutto quello che era ritenuto “debole” e negativo nell’umano: il servo, la donna, il bambino, il corpo, l’affettività, il desiderio, la Natura e la naturalità.

C’è quindi, di conseguenza, la Natura, nella proposta di Bevilacqua, non l’ambiente, genericamente inteso, uno sfondo da distruggere se sei un cattivo assoldato dai laboratori delle multinazionali, o da custodire, se sei un buono che fa la raccolta differenziata, comunque ontologicamente secondario rispetto al prometeismo umano. Ma la Natura come l’Essere Primo, la Materia madre di ogni fecondità e di ogni nascita, «un tutto connesso, da pensare nella sua totalità» dove il destino umano non può che intrecciarsi a quello del cosmo e di tutte le specie viventi. Come nell’ipotesi Gaia, negli epistemologi della complessità, nella nuova scienza della biologia, dell’ecologia, dell’antropologia, che assume la rete non solo come spazio delle comunità sociali, ma delle comunità naturali, che progrediscono e si evolvono se sono comunità cooperative e cenobitiche.

Per questi scienziati bizzarri, la Natura gioca, come dovremmo giocare noi, come dovrebbe giocare la nostra razionalità. Gioca la Natura intrecciando il granchio e l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me, come nella metafora ormai celebre ma non introiettata di Bateson. E perciò deve giocare la migliore razionalità incrociando i saperi, i campi di ricerca, il piccolo e il grande, per costruire quella che Warburg, un pazzo geniale, chiamava la «scienza mostruosa», la scienza «che ancora non c’è»: una scienza gratuita, ludica appunto, che non mira ai prodotti (si chiamano “prodotti” i libri nelle nostre università!), ma ai doni senza utile, che non “servono” se non alla riproduzione della bellezza, del piacere, dell’umanità in quanto umanità.

E infine c’è la politica, nella proposta di Bevilacqua, quella che secondo la Arendt non deriva dalla polis, l’angolo fortificato e guerrafondaio della città, ma dalla politeia, la gentilezza, il dialogo, la non-violenza e perché no, anche la cortesia. Questa bella politica si fa dal basso, nelle comunità che si danno come impegno forme organizzative ma anche disinquinamenti ideologici dall’Ordine del potere, a cominciare dalla ricostruzione di un mondo condiviso valori, di categorie della mente critiche e non colonizzate. E di stili di vita coerenti, perché in questi anni ci siamo lasciati andare, qualcuno ha comprato la casa di proprietà (io la vorrei, ma con le fondamenta nel mare, come nel gaio aforisma di Nietzsche), qualcun altro ha ammiccato alla selezione, alla competizione e alla carriera, qualcun altro ancora si è semplicemente rifugiato nell’utero della tecnologia, regredito in Internet, in Facebook, o, come molti giovani, nell’illusoria comunicazione dei soli, il telefonino.

Il gioco comunitario rompe invece la solitudine e spezza il cuore del colonialismo. E forse questo tema dovrebbe essere arricchito nella proposta di Piero. L’aspetto feroce di questo neocapitalismo è proprio il colonialismo, evidente nelle stragi di migranti, nella guerra, nell’intristimento quotidiano dei tropici , come nella denuncia struggente di Lèvi-Strauss. Sembra lontano, confinato in mondi selvaggi, e invece impera qui da noi, nell’Occidente ridente. Esso si palesa nelle forme classiche dello sfruttamento (caro, giovane Marx che, con Engels, suonavi di notte, per gioco, i campanelli delle porte borghesi!). Ma vede una forza inedita nella resurrezione del pensiero arcaico, magico, religioso che ben si sposa con il feticismo della merce, con l’assolutizzazione del potere del Capo, con la cancellazione di tutto ciò che è “passato” o disfunzionale rispetto agli artigli insanguinati dello sviluppo. Come fa l’Angelo della Storia, questa rete dovrebbe fermarlo, «ricomporre il materialismo infranto», e impedirgli di travolgere popoli, soggettività, lingue, società e soprattutto storie.

E così – con il dovere di conservare storie – va sostenuta la necessità di fare questa rete, di farla subito, magari pubblicizzandola in un’assemblea della Mente, pubblica, in piazza, all’aria aperta. In questa rete mi ritaglierei un piccolo ruolo di cantastorie, come faceva la mia nonna meridionale un tempo davanti al braciere o al telaio.

La Rockenphilosophie, la filosofia, tutta femminile, di chi ascolta e raccoglie storie mentre lavora, è oggi indispensabile per ogni impegno di intercultura, di porosità, di vero meticciato. Lo sapeva bene la regina Arete, una tessitrice. Quando a Scheria, nella sua isola, arrivò un naufrago povero e un po’ puzzolente, lei non lo buttò a mare, come faremmo noi europei dei rastrellamenti, né lo portò in un carcere di prima accoglienza. Lo lavò invece, lo nutrì, lo cosparse di olio profumato e poi lo portò a Palazzo dove aveva riunito tutti i dignitari. Allora gli disse «racconta». E lui raccontò: dei Ciclopi che aveva incontrato, di Circe e di Nausicaa, del canto delle Sirene. Era Ulisse, infatti quello sconosciuto naufrago, quel reietto siriano, quel disgraziato libanese, quel poveretto palestinese che il mare aveva rifiutato. Da lui, dal suo racconto, nacque l’unica possibile nazione, quella che ha l’orgoglio nell’essere una grande officina culturale (interculturale).