Dopo la decisione di Obama di sradicare il califfato in fieri dell’Is (Stato islamico) e dopo che il ministro Kerry si è recato a Gedda per formare l’ennesima grande coalizione di volenterosi, emerge chiaramente chi è il vero vincitore della partita: la monarchia dei Saud, minacciata in novembre dalla svolta pro iraniana di Washington a Ginevra, dall’influenza della Repubblica islamica negli affari mediorientali dalla Siria al Bahrein, dalla marea delle primavere arabe.

Parte diligente nella creazione dell’Is, cresciuto con finanziamenti privati sauditi e del Golfo, Riad ha allevato l’ennesimo mostro salvo poi prenderne le distanze e offrire le sue basi per una nuova campagna antiterroristica contro i jihadisti tenuti a battesimo solo qualche mese fa.

Il piano è chiaro: contenere Teheran e mettere al riparo la retriva e oscurantista monarchia wahabita da movimenti, laici o islamisti, che potrebbero insidiare la sua monolitica stabilità. Ne hanno fatte le spese i Fratelli musulmani egiziani, prima finanziati da Riad e poi dichiarati «terroristi», e la stessa Hamas, tenuta a bada dal nuovo governo di Al Sisi e da Tel Aviv.

Adesso è arrivata l’ora di fermare il jihad anche in Iraq e Siria, visto che ormai Riad ha ottenuto di portare dalla sua parte Washington e l’Europa, scalzando il paventato rientro sulla scena di Teheran come attore universalmente accettato. Quando John Kerry ha chiarito a Bagdad qualche giorni fa che, nel contro jihad, non c’è bisogno dell’Iran, i Saud hanno capito che era fatta. C’era solo da mettersi d’accordo per apparire i pilastri di un islam ragionevole (e sunnita) in barba al lungo sostegno fornito, dall’Africa all’Afghanistan, a tutti i movimenti più radicali.

Gli Stati uniti, preoccupati dall’avanzata russa in Europa, sono così caduti nella trappola saud, tutto sommato il governo più stabile della regione, riserva di energia per eccellenza e la miglior garanzia che i finanziamenti ai jihadisti si prosciugheranno mettendo l’Is in difficoltà.

Eppure gli americani conoscono bene l’ambiguità di Riad tanto che, ha rivelato il New Yorker, George W. Bush secretò nel 2002 un documento che raccontava il coinvolgimento di alcuni sauditi nell’attacco dell’11/9. La relazione tra americani sauditi ed emirati è sempre stata forte quanto oscura. E il Golfo ha fatto di tutto per evitare che il suo grande Satana – l’Iran – potesse espandere la sua influenza (vedi l’invasione saudita nel vicino Bahrein nel 2011 per proteggere la monarchia cugina dalle proteste degli sciiti) e, soprattutto, potesse rientrare nel novero dei Paesi con cui si parla.

In questi anni tutti han dato una mano, Italia compresa. Nel solo 2013 abbiamo venduto armi a Riad per 126 milioni e agli Eau per 95. Difficile sapere dove bombe, munizionamento o veicoli siano finiti senza per altro che ai regni del Golfo sia stato chiesto del sostegno all’Is largamente tollerato.

Intanto il coinvolgimento dell’Iran nell’era post Ahmadinejad ha subìto un raffreddamento e, adesso, uno stop totale. Del resto, chi meglio della mamma per riportare all’ovile figlioletti troppo discoli andati un po’ troppo in là nella guerra agli sciiti e colpevoli di aver ucciso, senza autorizzazione, anche cristiani e occidentali? Per i Saud la guerra è già vinta e l’Is non serve più.

Ma come spesso accade quando si creano mostri, questi vivono di vita propria come accadde coi talebani, Osama bin Laden o al Nusra. Fermarli è complicato e allora si passa alle bombe delle coalizioni di volenterosi. Un gioco che comunque torna per i venditori di armi che chiudono così il cerchio infinito della guerra nella guerra.