«Chi sono, quanto della mia identità è costruito a partire dalla realtà e quanto dall’immaginazione o da ricordi deformati nel corso del tempo?» È forse a partire da questa domanda che prende avvio il viaggio nel passato che è alla base del libro di Leopoldo Santovincenzo, intitolato La balena di piazza Savoia. L’immaginario che avevamo in dote (Exòrma, pp. 286, euro 16,50).

UN PERCORSO nell’immaginario, come appunto recita il sottotitolo, che dunque per sua natura si rivela essere allo stesso tempo individuale e collettivo. Non a caso, subito dopo l’affermazione citata, il racconto passa dalla prima persona singolare alla prima persona plurale, dall’io al noi. Il discorso, infatti, è assolutamente singolare ma anche implacabilmente generazionale. Una sorta di piccola Recherche, dunque, itinerario dal tempo perduto a quello ritrovato. Fare i conti con un passato che non c’è più, ma che vive ancora dentro ciascuno e ciascuna, ci ha formato, ci ha fatto diventare ciò che siamo. La madeleine che innesca l’ondata di ricordi e di considerazioni è di dimensioni epiche, oltre che gigantesche: una balena che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta viene esposta, imbalsamata, in una piazza di Campobasso, città natale dell’autore. Un’immagine che sembra essere spazzata via dal tempo. Nonostante l’eccentricità e anormalità del fatto, comprese le dimensioni del cetaceo, nessuno sembra più rammentarsi di quell’evento.

NONOSTANTE LA DIFFUSA amnesia, un po’ alla volta, Leopoldo Santovincenzo riesce a ricostruire la storia di Goliath, la balena, in tour a partire dagli anni Cinquanta per un quarto di secolo in Italia, in Europa – anche in quella dell’Est – fino ad arrivare in Israele. Parallelamente al viaggio del leviatano, emergono la storia, la temperie, i modi di vita della società italiana, soprattutto della cosiddetta provincia, ma non solo. Insomma, l’anima, ancora una volta individuale e collettiva, dell’autore, della sua generazione e del paese. Oltre a Goliath – che, tra l’altro, non è l’unico mammifero marino a essere esibito in quel periodo – l’altro grande protagonista del libro è il cinema.

LA FISSAZIONE per la balena di questo quasi novello Achab si coniuga con un’altra magnifica ossessione, quella per il grande schermo. Cinema inteso sicuramente come produzione filmica ma anche come ambiente, come sala di proiezione. Del resto l’autore, dal 1972, riporta su delle agende tutte le pellicole che ha visto con relativo giudizio espresso in stellette. E d’altra parte la sua camera letto aveva una parete in comune con la sua sala preferita, il Modernissimo. Così, da un canto scorrono nel libro le pagine dedicate ai film.

E al fianco dei grandi autori, Fellini, Bertolucci, Scorsese, Pasolini, Kubrick, ampio spazio è dedicato ai lungometraggi di genere, al suo portato popolare: musicarello, western, fantascienza, kung fu o come si diceva, non solo a Campobasso ma un po’ in tutto il Meridione, «film di mazzate». Fino ad arrivare ai lavori di Ciccio e Franco «il più incredibile caso di sfruttamento che il cinema italiano abbia mai conosciuto»: novanta film in dieci anni, quarantadue solo tra il 1964 e il 1966. Dall’altro sembra di entrare ancora una volta nelle sale dell’epoca, sentirne l’odore di fumo, riviverne il sapore e il carattere che li rendeva ognuno diverso dall’altro. E ritrovare modi di fruizione radicalmente diversi dagli attuali: «Un tempo si pagava l’ingresso in uno spazio comune acquisendo il diritto di abitarvi per qualche ora, adesso si paga il consumo di un prodotto».

ALL’INTERNO di queste due coordinate, la balena e il cinema, prendono vita riti collettivi, come quello delle vacanze estive a Campomarino, incontri ed amicizie, figure famigliari, fino all’irrompere della politica con il ’77, le radio libere, gli scontri. Ma in realtà il discorso sociale e politico è ben presente in tutto il libro, quando si parla della vita, quando si parla delle sale cinematografiche, quando si parla dei film. Colpisce davvero, per esempio, una questione che dovrebbe essere chiaramente evidente e che Leopoldo Santovincenzo sottolinea con forza, ovvero come sia cambiata la scena sociale al centro dei film italiani: «Tra il 1967 e il 1971 sono protagonisti contadini, operai, muratori, barbieri, fioraie, prostitute, bagnini, emigrati, pizzaioli, venditori ambulanti, pretini di campagna, ragionieri, sottoproletari.

Quando lo sguardo si volge al passato ecco apparire alla ribalta partigiani, manovali anarchici, briganti, peones, pirati anticolonialisti. Sfido, frugando tra le produzioni italiane degli ultimi anni, a trovare una simile galleria. In compenso troverete manager, architetti, bancari, avvocati, imprenditori, broker, ingegneri, medici – meglio se primari –, scrittori o sceneggiatori in quantità, professori, studenti di buona famiglia, perfino critici d’arte». Insomma «fare un film su un contadino oggi equivale a farlo sull’ultimo membro di una tribù amazzonica».