Le rovine che ne restano, mostrano quanto grande sia stata la magnificenza dell’antica Roma: «Roma quanta fuit ipsa ruina docet». Motto che può essere ragionato in questi termini: solo riflettendo e considerando il frammento che ce ne resta possiamo tentare di intendere quale sia stata l’opera nella sua integrità. E l’intento di restituire il reperto mutilo alla sua originaria compiutezza, tentato per via di attendibili ipotesi, diviene allora un lavoro della mente che non può prescindere da un esercizio di immaginazione.

Perché i ruderi degli edifici e dei templi, i marmi frammentari e i bronzi che ci provengono superstiti dalla Grecia e da Roma fanno intendere bene non solo il numero enorme delle cose perdute: con la incommensurabile perdita è per noi revocata in dubbio la nostra medesima capacità di intendere la idea stessa che informava ciascuna di quelle opere, noi che siamo impegnati a figurarcele nella integrità che il tempo ha in loro per sempre cancellato; intesi noi a restituircele (in virtù di costrutti filologici, storici e critici) nella perfezione d’una loro ipotizzabile compiutezza. Ogni loro valutazione risulta inevitabilmente provvisoria e bisognosa sempre di ulteriori verifiche, vuoi indotte da nuovi ritrovamenti (come accadde nell’Europa del XVIII secolo con gli scavi pompeiani); vuoi motivate, fattore non meno rilevante, dai mutamenti del gusto che varia d’epoca in epoca. Perché il rapporto con l’Antico è una delle determinazioni essenziali non solo del Moderno, ma un elemento portante di quella ricerca d’una consapevolezza di sé che affatica la coscienza dell’Occidente.

Grande allora, e si comprende, è la muta meraviglia che muovono in noi le opere che dall’antichità ci son giunte intatte, esenti dagli insulti del tempo demolitore. Rarissime, come si sa, e da contarsi in poche decine. Mi limito qui a ricordare, in proposito, le due statue bronzee miracolosamente conservatesi dal V secolo nei fondali sabbiosi del mare di Riace, tornate alla luce nel 1972, opere perfette e di tale maestria ed elevatezza da non aver quasi adeguato riscontro in duemila cinquecento anni di statuaria europea.

Come è agevole comprendere stante la fragilità dei pigmenti e degli intonaci (non si dica dei tessuti e dei legni) davvero poco resta della pittura greca (salvo la decorazione fittile) e romana: se ne posseggono descrizioni, ma rari ne restano i lacerti pervenuti a noi. D’una pittura romana risalente al primo secolo avanti Cristo, ‘intatta’ e di sovrana bellezza, colgo qui l’occasione di sommariamente discorrere: la celebre decorazione parietale proveniente dalla villa di Livia, la moglie di Augusto, a Prima Porta. La vasta sala (quasi sei metri per dodici) fu scoperta nel 1863. Decorata tutto d’attorno, senza soluzione di continuità, da una sublime ‘pittura di giardino’. Tra 1951 e 1952 le pitture furono ‘staccate’ e collocate presso il Museo Nazionale Romano. Nel 1984 furono sottoposte ad un intervento di ‘pulitura’.

Chi si fosse trovato nella sala, girando lo sguardo intorno a sé, scorgeva il vialetto che, delimitato da basse staccionate di salice, poteva consentirgli una piacevole passeggiata parallela al perimetro della stanza. Una attrattiva assai seducente. Gli alberi, le piante, i fiori e le erbe verdeggiano in un’aria chiara d’una luce cilestrina che il cielo sereno diffonde, lassù, con un refolo mite di brezza. Tra le fronde si posano uccelli e ciascuno intona il suo canto. Volano leggeri da un ramo all’altro. Rami teneri ancora e foglie giovani. Poteva notare l’ospite, che in quel giardino alcune piante solitamente in fiore ad una certa stagione sono accostate ad altre che fioriscono in altro tempo dell’anno.

E così gli uccelli, radunati insieme la rondine primaverile e quanti appaiono in autunno, o d’estate o d’inverno. Così quell’attento osservatore poteva considerare come quel giardino, tanto fedele nel ritrarre ciascuna pianta e ciascun volatile, non fosse da intendersi come la mera prova d’una cultura botanica e ornitologica, ma come la rappresentazione del tempo ciclico ed eterno della natura nel susseguirsi delle stagioni. E riflettere sull’effimero tempo della mortale vita umana.