Non passa giorno senza che le copertine di riviste e quotidiani ci invitino, in modo talvolta insistente, a camminare per boschi e giardini, coltivare terrazzi e orti collettivi, circondarci di piante tropicali, mettere le mani nella terra. Ma perché dare credito a queste sol- lecitazioni, e cosa pensare dei risultati promessi?

È per rispondere alle nostre perplessità e corroborare le nostre aspettative che Sue Stuart-Smith, psichiatra, psicoterapeuta e giardiniera britannica, ha dedicatocinque anni alla redazione di Coltivare il giardino della mente, un libro di cui Rizzoli si è assicurata la traduzione italiana. Non l’ennesi-mo manuale di coltivazione, e neppure un’esoterica interpretazione di influssi lunari, bensì un libro sensibile, intimo e tuttavia scientifico, documentato e poetico, un lavoro necessario, direi indispensabile.

Scelto dal Sunday Times come miglior libro sui giardini del 2020, il volume intreccia le esperienze dell’autrice e della sua famiglia con le intuizioni più recenti delle neuroscienze, lo studio di aspetti meno noti della psicoanalisi con la ricerca urbanistica di punta, le esperienze di orto terapia con i primi casi di «natura» prescritta dai medici di base in Inghilterra e in Canada.

Mesi di viaggi e ricerca, tenace e fiduciosa, su ciò che ci lega alla natura al punto da renderla necessaria per la nostra salute psichica.

Sue mi ha accolta, per schermi interposti, a casa sua, The Barn (Il Fienile, ndr) nell’Hertfordshire, dove vive da più di trent’anni con il marito Tom, uno dei giardinieri e landscape designer più noti d’Inghilterra. Un dialogo vivace e schietto, come lei.

Perché cominciare il libro con la storia di suo nonno?

Entrato in Marina da ragazzino, a vent’anni Ted si è ritrovato in un campo di lavoro turco dopo la disfatta dei Dardanelli. Al momento della fuga nel 1918 pesava 40 chili ed è soltanto grazie alle cure amorevoli della fidanzata che è sopravvissuto. Ha poi accettato di entrare in un programma di orticoltura della durata di un anno, proposto dal Ministero del Lavoro e specialmente dedicato ai reduci. La sua storia di rinascita mi ha spronata a studiare i programmi dedicati ai soldati che tornavano dal fronte. In alcuni ospedali di guerra britannici le attività di giardinaggio erano prescritte ai soldati che soffrivano di neurastenia, invece di terapie invasive come l’elettroshock. Senza dimenticare i cosiddetti giardini di trincea, grazie ai semi che nel 1915 i soldati chiedevano alle famiglie.

A più riprese lei racconta di come il prendersi cura del giardino l’abbia aiutata a superare momenti difficili…

Da anni ero impegnata in giardino, insieme alla mia famiglia, ma consideravo il giardinaggio un compito necessario, benché piacevole. Ho davvero cominciato a riflettere alle potenzialità terapeutiche dei giardini e del verde a partire dal 2013, quando sono diventata responsabile del dipartimento di salute mentale della mia contea. Ho voluto radicare la mia esperienza personale nella ricerca scientifica e psicoanalitica. Ho cominciato con lo studio della storia dell’agricoltura. Il legame tra la coltivazione della terra e il definirsi della struttura simbolica della società mi è parso evidente, così come le analogie tra l’uomo e l’ambiente naturale di cui fa parte.

Nel capitolo Radici lei scrive: «La pratica de giardinaggio non è cambiata molto da quando gli esseri umani hanno cominciato a lavorare la terra (…). Nemmeno la mente umana è cambiata molto». Che ne è della modernità?

Sempre più spesso le neuroscienze assimilano il funzionamento della mente a quello di un computer. Ne fanno fede espressioni come hardware e app riferite ad alcuni circuiti cerebrali. In realtà non funziona così. Il cervello è parte della natura: ci sono cellule, le microglia, che lavorano come giardinieri. Si pensava avessero soltanto un ruolo di difesa dalle infezioni, ma ora sappiamo che contribuiscono alla formazione della mente sin dall’inizio. Potano e tolgono erbacce ogni notte, mentre dormiamo, aiutate da un fertilizzante, il fattore neurotrofico cerebrale (Bdnf). Per di più si è scoperto che la crescita cerebrale si svolge secondo le tre leggi matematiche che regolano la crescita vegetale.

Avendo trovato poche tracce dell’apporto psicoanalitico allo studio del legame tra salute mentale e natura vi ha dedicato una parte della sua ricerca. Come hanno reagito i suoi colleghi?

Direi con cortese scetticismo! Con il passare del tempo il loro atteggiamento è tuttavia cambiato. Per molti mesi ho studiato la corrispondenza di Freud, e i suoi diari di viaggio. Era soggiogato dalla bellezza dei fiori, la natura e le Alpi erano per lui «medicina per la mente». A differenza di Jung non ha scritto di giardini, ma quando il cancro gli ha impedito di viaggiare ha trascorso per anni i mesi estivi nei giardini di ville viennesi. Nel 1939 il giardino di Maresfield Gardens, a Londra, è stato testimone e consolazione dei suoi ultimi mesi. La sua relazione con la natura è vissuta, condivisa, non teorizzata.

Gli approfonditi teorici del libro sono corredati da un’entusiasmante carrellata di esperienze sull’uso terapeutico della natura. Dal carcere newyorchese di Rikers Island, alla clinica svedese di Alnarp per le vittime di burnout; da San Patrignano agli Horatio’s gardens britannici, dedicati alla riabilitazione in seguito a lesioni spinali. Nuove professioni (orto-terapeuti, eco-psicologi, giardinieri specializzati) al servizio di uomini e donne feriti dalla malattia o dalle circostanze. Cosa hanno in comune queste pratiche?

Il giardino è la medicina dello spazio e del tempo. Permette di sentirsi protetti, sicuri, di allentare le difese che ansia, paura e traumi hanno reso necessarie. Se si abbassa la guardia si schiude la possibilità di nuove esperienze. Il giardino è recinzione e prospettiva, è regolato dal ritmo naturale e tuttavia libero. Per definizione, lavorare in giardino è guardare in avanti, verso il futuro. Quando si è depressi o ansiosi il futuro è il luogo dell’angoscia. Invece interrare un bulbo è «come innescare una bomba ad orologeria carica di speranza». Ci apre ad un tempo che siamo in grado di immaginare, un seme ci invita ad un’attesa di qualche settimana che è alla nostra portata.

Viviamo in ritardo, incapaci di fermarci, spinti verso l’avanti … Qual è il tempo del giardino?

Una parte delle patologie psichiche dei nostri anni è legata alle esigenze del tempo lineare che governa le nostre giornate, teso verso un obiettivo. L’accelerazione richiesta per rispondere alle aspettative del sistema è per molti difficile da sostenere. La natura invece si muove secondo un tempo ciclico, così come il nostro cervello che è un organo predittivo: per anticipare il futuro si rifà al passato, in un continuo movimento circolare. In giardino è sempre possibile ripercorrere le esperienze passate per evitare gli errori e rinforzare i successi. La natura perdona sempre e concede una seconda opportunità.

Benché lei abbia cominciato a lavorarci anni fa, la pubblicazione del libro durante la pandemia può aver contribuito al suo successo?

È possibile! Ci si rivolge ai giardini in tempo di crisi, quando siamo privati di visibilità e ci sfuggono le conseguenze delle nostre azioni. Un cambiamento collettivo è necessario, anche se ne siamo spaventati: dobbiamo lavorare sul legame con la natura, per il bene delle nostre città e dell’ambiente, imitare la natura nei progetti urbanistici ed architettonici. Non è un’opzione tra le altre, dev’essere al centro delle scelte politiche. La progressiva riduzione dei finanziamenti per la salute pubblica ci spinge inoltre a cercare altre risorse e la presenza di verde in città è un «fattore protettivo» per gli abitanti.

Il suo libro è toccante, per la qualità degli incontri, la bellezza delle descrizioni e la generosità con cui ha condiviso le sue esperienze.

Ho scritto per chi legge di giardini e natura, di psicologia e salute, per i colleghi, in fondo per tutti. Molti mi hanno ringraziato per aver dato voce alle loro emozioni. Il giardinaggio è una pratica inconscia, non verbale, ma ho provato a farla parlare, cominciando da me.