Quando parliamo di «cultura del giardino» intendiamo una diffusa e radicata conoscenza presso ogni ceto sociale dei rudimenti della botanica. Questo ha molto a che vedere con la storia urbanistica delle nostre città. Le città operaie amministrate dai laburisti in Inghilterra, con il loro pezzetto di terra davanti e sul retro, furono concepite proprio per lasciare ai lavoratori ed alle loro famiglie uno spazio dove ritemprarsi dopo la monotona, alienante fatica della fabbrica. Fare il giardino, coltivare un pezzo d’orto – ben lungi da quel detto attribuito a Chico Mendes l’ecologia senza lotta di classe equivale al giardinaggio – per quei lungimiranti amministratori delle città rosse significava proprio incidere sulla qualità della propria vita e contemporaneamente sviluppare una coscienza della natura, una coscienza ecologista.
Vita Sackville West, quando teneva la sua rubrica sull’Observer, riceveva migliaia di lettere e bustine di semi, di fiori ed ortaggi, e si faceva un punto d’onore di rispondere a ciascuno e di ricambiare: queste sono le fondamenta di una cultura del giardino diffuso presso ogni ceto sociale, un processo che ha contribuito a creare paesaggi urbani decisamente meno squallidi ed avvilenti nelle città e periferie urbane.

Bisogna smentire una insana lettura di quel motto attribuito al grande sindacalista brasiliano. Una sana attitudine verso il giardino migliora la vita di tutti, evidentemente chi si ostina a citarlo non ha mai provato quanto sia vivificante stare nella terra nel solo modo creativo che l’essere umano possiede: coltivarla.
Dario Paccino – di recente è stato ristampato il suo fondamentale L’imbroglio ecologico – negli ultimi anni della sua vita ha ritenuto bene ritirarsi in campagna a coltivare. L’ideologia della natura che egli giustamente criticava non ha niente a che vedere con la sana e quotidiana dimestichezza con il proprio orto o giardino. Dalla solita Inghilterra ci arrivano testi dedicati al giardino che illustrano chiaramente come il nostro cervello (non a caso i capillari che lo innervano sono detti «dendriti» da «dendron» che significa albero) rimanga sveglio proprio perché si occupa costantemente di qualcosa che cambia non ogni stagione ma ogni giorno.
Seminare, trapiantare, rinvasare sono atti che richiedono perizia ed ascolto, siamo noi gli artefici del nostro giardino ma il clima, il luogo e tanti altri fattori indipendenti dalla nostra volontà fanno sì che dobbiamo ascoltare, percepire, sentire e comprendere come muoverci nella natura. Col tempo, nel corso degli anni impariamo senza costrizioni. E’ la stessa natura a incanalare la nostra libertà.

Se gli insuccessi ci insegnano che non siamo onnipotenti, i successi aiutano senza ricorrere ad antidepressivi a migliorare la nostra autostima. Per non dire di tutti i nostri sensi appiattiti ed omologati in questi tempi di globalizzazione del gusto, che nel nostro giardino e nel nostro orto vengono esaltati tutti. Non commettiamo l’errore di snobbare il giardinaggio. Antonio Gramsci, in una delle sue Lettere dal carcere, caldamente consigliava alla sua Tatiana di recarsi in piazza Duomo a Milano da Ingegnoli a comprare un cartoccio di semi di fiori.
Lui nella sua cella non avrebbe mai potuto sentirne il profumo, ma lo riempiva di gioia la sola idea che il suo amore invece sì. Non lasciamo ai «felici pochi» il godere di una sana e popolare cultura del giardino.