Cinque siriani, cinque egiziani, due afgani e otto di origine non dichiarata, questi sono i venti richiedenti asilo a cui il ministero della Giustizia giapponese ha riconosciuto lo status di rifugiati nel 2017. Cinquecentomila sono, invece, i lavoratori stranieri che lo stesso governo ha annunciato di voler accogliere a partire dal prossimo aprile. Questi due dati non raccontano tanto un caso di schizofrenia amministrativa, ma una tensione di fondo della società e della politica giapponese.

Le domande di asilo presentate nel corso dell’anno passato sono state circa 20 mila. Il principale ostacolo all’accoglimento, lamenta l’Associazione giapponese per i rifugiati (Jar) di Tokyo, è l’interpretazione estremamente restrittiva che il governo dà alla Convezione internazionale sui rifugiati di Ginevra del 1951. Il richiedente asilo in Giappone è obbligato a dare prova di uno specifico pericolo per la sua persona, mentre la persecuzione di un gruppo etnico o politico a cui egli appartiene non è da sola sufficiente. Una soglia molto alta e ben al di sopra della prassi internazionale.

La stampa locale riporta casi di dinieghi di protezione a persone che hanno partecipato alle proteste contro il governo siriano nel 2012. Le autorità giapponesi ritengono che questo comporti solo un pericolo generico e non abbastanza individualizzato. Si legge di una donna africana a cui il ministero aveva negato protezione perché non in una posizione dirigenziale all’interno del partito in cui militava. Questo caso è stato successivamente risolto dalla giustizia giapponese in favore della donna. Per le organizzazioni umanitarie sarebbero centinaia i casi effettivamente meritevoli di tutela non riconosciuti.

Il ministero della Giustizia, in un rapporto del febbraio scorso, ha ritenuto che la maggior parte delle domande fossero proposte solo per motivi economici e non umanitari. Il ministero cita la situazione interna dei Paesi di origine di queste domande (Filippine, Vietnam e Sri Lanka) a sostegno della tesi. La spinta economica, sempre secondo il ministero, nasce dal diritto di permanenza in Giappone e però il diritto veniva concesso temporaneamente, fino all’inizio di quest’anno, ai richiedenti asilo dalla presentazione della domanda fino alla decisione sul singolo caso.

Gli stranieri residenti in Giappone al momento rappresentano circa il 2 per cento della popolazione, uno dei valori più bassi nei Paesi Osce. I governi nipponici nel dopoguerra hanno perseguito una politica di chiusura all’immigrazione. Al centro delle loro politiche c’è sempre stata la preoccupazione per l’omogeneità etnica e culturale del Paese, che nel dibattito intellettuale viene vista come necessario presupposto per la fedeltà incondizionata alle autorità e per l’appartenenza alla grande famiglia giapponese con a capo l’imperatore, come ricostruisce il sociologo Eiji Oguma.

Ora però queste ragioni sono entrate in crisi. La causa è la doppia pressione del calo demografico e dell’aumento della domanda di lavoro, soprattutto ai livelli più bassi della manodopera. Negli ultimi cinque anni la forza lavoro giapponese è calata di circa 4 milioni di persone per l’invecchiamento della popolazione, mentre nello stesso periodo l’occupazione è aumentata di oltre 2 milioni e 700 mila posti. Tre sono i settori principalmente coinvolti: agricoltura, assistenza sanitaria e agli anziani, e infine costruzioni. Le Olimpiadi di Tokyo 2020 si avvicinano e c’è molto da costruire, l’edilizia è uno settori più colpiti dalla carenza di manodopera. Le pressioni dei gruppi industriali sul governo sono state decisive.

È in questo contesto che va letta la conferenza stampa del 24 luglio in cui il primo ministro Shinzo Abe ha annunciato la svolta rispetto alle politiche tradizionali che prevedevano solo visti per lavoratori altamente qualificati. Resta comunque escluso il diritto al ricongiungimento familiare e i permessi di lavoro nei settori aperti saranno limitati a 5 anni.

I serbatoi a cui il Giappone ha attinto fino ad oggi per coprire le lacune di forza lavoro sono stati i «nikkeijin», i discendenti della diaspora, negli anni ’90 e i tirocinanti o studenti stranieri, a cui viene concesso di lavorare part-time, più di recente. Nei «conbini», i supermercati aperti 24 ore, di Tokyo e delle altre grandi città è frequente incontrare questi ultimi alla cassa. I nikkeijin invece sono i discendenti di emigrati giapponesi, stabilitisi principalmente in America latina, a cui è stato concesso di tornare nella nazione dei propri avi per lavorare, soprattutto nel settore manifatturiero.

I primi immigrati a fare la loro comparsa in Giappone a fine anni ’70 furono in maggioranza donne in negozi, ristoranti, bar e quartieri a luci rosse, che solo nel 1988 furono sorpassate dagli uomini. La prima riforma che regolò un accesso parziale al «Paese del Sol levante» è del 1990 quando furono creati i visti di «tirocinio tecnico». Originariamente pensati come un mezzo di sviluppo in favore dei Paesi poveri, si sono spesso trasformati in posti di lavoro altamente precari, mal pagati e in pessime condizioni di sicurezza, senza nessun tipo di attività formativa. E sono oggetto di una dura critica da parte delle organizzazioni sindacali e di categoria.

«È necessario creare un ambiente che permetta agli stranieri di vivere in confortevolmente in Giappone» ha dichiarato la ministra della Giustizia, Yoko Kamikawa. Iniziare dalla tutela dei diritti dei più deboli potrebbe essere un buon punto di partenza.