«Un festival sono i film ma anche, forse soprattutto, le persone che riesce a unire intorno a sé». Lo hanno ripetuto spesso nelle nostre conversazioni i curatori del festival di Yamagata, e quella che potrebbe sembrare una semplice dichiarazione di intenti è invece il fondamento del loro lavoro artistico e organizzativo. Non si tratta soltanto di connettere tra di loro le persone che lo frequentano, gli ospiti, i registi che arrivano a presentare le loro opere cosa comunque sempre più rara nel panorama mondiale troppo preoccupato delle anteprime, dei tappeti rossi e via dicendo per ricordarsi, specie gli appuntamenti a dimensione «piccola» – non le grosse macchine promozionali come possono essere Cannes, Berlino, Venezia – che dovrebbero mantenere prioritario questo aspetto. Dunque chi arriva a Yamagata non può che essere felice di avere così frequenti occasioni di incontro e di partecipazione comune.

La scommessa più ampia è però quella di costruire una vera e propria comunità di addetti ai lavori e di spettatori con cui confrontarsi al di là dell’evento, che a loro volta vedano nel festival un riferimento per le loro attività. Per questo anche se ha una scadenza biennale il lavoro non si ferma mai. Il team, diviso tra la cittadina del nord e Tokyio continua le sue attività nei dodici mesi in cui non si prepara la nuova edizione organizzando proiezioni per le università e le scuole, laboratori, iniziative diverse tutte con l’obiettivo di tessere nuove relazioni col territorio. Un successo stando alle sale sempre piene con un pubblico di tutte le età, in particolare di giovani che arrivano anche da altre città giapponesi. E nel caso specifico di Yamagata è un po’ come se il festival partecipasse allo sforzo di aprire nuove possibilità per quei luoghi dove l’amministrazione cittadina – che ne è un efficace sostenitore – investe molto sui più giovani sostenendoli economicamente nell’avvio di nuove attività per impedire che emigrino come ovunque nel mondo verso la metropoli.
Disseminato in luoghi diversi grazie a questi sforzi il festival si è ora imposto nella realtà che lo ospita, la gente lo conosce, non solo i cinefili locali, arrivano distributori e produttori da altri paesi asiatici e europei (grande assente l’Italia nonostante una diffusa curiosità verso il nostro cinema), ci sono gli workshop di critica (affidara a Chris Fuijiwara), la presentazione dei progetti in divenire, c’è una bella energia che circola insieme alla voglia di discutere, di fare domande agli autori, di conoscere, aspetti anche questi divenuti meno comuni.

Il programma. L’anteprima non è la principale preoccupazione dei selezionatori – anche se quasi tutti i film sono mostrati per la prima volta in Giappone – che cercano piuttosto, vista la scadenza biennale di proporre quanto di importante si è visto negli ultimi due anni. Il festival alla fine tiene la copia che mette a disposizione per proiezioni non commerciali (facoltà di cinema, seminari ecc) con il pagamento di una piccola fee versata all’autore; anche questo un altro tassello di quella costruzione in continuità, che permette di avere un archivio importante e di dare alle opere presentate in ogni edizione una presenza non di semplice vetrina.

I film del concorso internazionale e quelli delle Nuove prospettive asiatiche condividono la scelta di soggetti «politici», ambiente, migranti, colonialismo, e al tempo stesso di una «narrazione» politica in sintonia con le immagini del cineasta ispiratore del festival, Shinsuke Ogawa che a questa regione ha dedicato molte opere. Oggi, in una città non molto distante da Fukushima, che ha accolto gli evacuati dalle zone contaminate dove nessuno, tranne le persone anziane, vuole tornare nonostante il governo garantisca che non c’è più pericolo – «Ma ormai – ci racconta qualcuno – hanno ricominciato una vita diversa, i figli vanno a scuola, si sentono distanti» – la presenza di molti film dedicati a questo trauma e alle esperienze attuali di chi lo ha vissuto sembra quasi «obbligata». Eppure sembra che nella vita quotidiana non se ne parli molto, anzi «le vittime» preferiscono evitare l’argomento che invece rimbalza sugli schermi e nelle storie. Non c’è solo questo: le Prospettive giapponesi vanno dal racconto della resistenza di piccole realtà agricole (la coltivazione del the in Tenryu-ku Okuryoke Osawa: Bessho Tea Factory di Hori Teichi in cui il regista segue i gesti quotidiani al lavoro delle anziane raccoglitrici di foglie a 740 metri di altezza nel villaggio di Osawa) alla cifra sperimentale in Almost Ghost di Onishi Kenji, una variazione in 8 millimetri sugli home movies che riprendono gli ultimi giorni di vita della nonna vecchissima dell’autore.

 

 

Nel concorso internazionale – vinto dalla storia familiare di Communion di Anna Zamecka – il terremoto del 2011 torna nelle immagini del Agastuma Kazuki, trentaduenne regista giapponese che in Tremorings of Hope si ferma nel piccolo villaggio di Hadenya devastato dal sisma per seguire le vite di chi vi continua a abitare tra speranze di una ricostruzione e sentimenti confusi, immagini girate prima del terremoto, la presenza del cineasta che in quel luogo ha abitato a lungo.

 

 

Un «disastro» è anche al centro del nuovo film di Hara Kazuo, nome di punta del documentario giapponese (Extreme Private Eros: Love Song 1974; The Emperor’s Naked Army Marches On) Sennan Asbestos Disaster. Non si tratta però di un cataclisma «naturale» ma del sistematico avvelenamento provocato dall’amianto a Sennan, nell’area di Osaka. Per anni la gente si è ammalata ed è morta, quasi tutti operai costretti a maneggiare l’amianto senza alcuna precauzione e in dosi letali, nonostante la pericolosità della sostanza fosse conosciut. La regione prospera grazie alle industrie e intanto non solo i lavoratori ma le loro famiglie continuano a ammalarsi, cancro ai polmoni che uccide. Tutti sanno ma nessuno prende alcuna iniziativa finché una decina di anni fa i sopravvissuti non decidono di avviare una azione legale contro lo stato giapponese rivendicando una compensazione per i danni subiti. Hara Kazuo segue il processo per tutti gli otto anni, dalla prima vittoria fino ai continui appelli voluti dal governo che rifiuta di ammettere le proprie responsabilità – l’Ilva non è così lontana. Schierandosi a fianco delle vittime Hara Kazuo ne filma emozioni, rabbia, determinazione, lacrime. Una lotta che non vuole arrendersi e che nel tempo si trasforma in gesto politico collettivo.