La trentatreesima Rassegna di Nuova Musica nell’edizione da poco svoltasi nel teatro Lauro Rossi (16-18 marzo) ha voluto affrontare un tema rischioso e affatto discutibile: la performance nel suo aspetto visivo, ovvero la gestualità non in ciò che è funzionale al suono, ma in ciò che a quest’ultimo serve poco o nulla. Non che si sia giunti a far dirigere il Tacet di Cage a un direttore senza orchestra, ma si sono ascoltate anche pagine delle quali, privi di vista si sarebbe capito ben poco.

Non così, è ovvio, in quelle più immediatamente politiche come Workers Union di Louis Andrissen del 1975 o ne I Funerali dell’Anarchico Serantini di Francesco Fidel (2005-2006) o negli Orazi e Curiazi (1996) di Giorgio Battistelli, ma coll’allontanarsi o il dissolversi dell’oggetto politico o quantomeno sociale, la gestualità dell’esecutore, data l’astrazione, non può che diventare più ambigua nei rinvii, più debole nel senso, più allusiva piuttosto che denotante.

Naturalmente questo non è affatto un male, ma mentre l’effetto di un gesto non scenico non ha nessun potere sul tempo, quello del performer te la impone senza scampo, sicché se non percepisci, se non capisci, tutto diventa imbarazzante. In quest’edizione sui performer, i nomi di più evidente richiamo erano quelli dei gruppi Aler Ego e Ars Ludi e di Frederick Rzewski. Questi, nato in Pennsylvania nel 1938, è musicista che negli anni Sessanta ebbe una frequentazioni assidua col mondo ribelle di allora, con musicisti che lavoravano a spogliare la musica dei suoi abiti paludati.

Nel programma dei concerti c’è un suo Attica, che è del 1972 come l’Attica Blues di Archie Shepp. Nasce dalla stessa rivolta di carcerati neri e dal massacro punitivo che fu voluto dal governatore, credo Rockfeller. Rzewski mi dice che conosce Shepp e la sua musica e che vi riconosce gran valore. Naturalmente non abbiamo nulla da ridire, ma, e serve a capire come l’astrazione renda difficile la comprensione, fatto scivolare nella conversazione il nome di Cecil Taylor, egli mostra tutta la sua perplessità e persino dice di non capirlo.Naturalmente non può essere stato così per la musica da strada di Andrissen: volendo barattoli, pentole, fischietti e quel che vi pare come oggi a volte accade attorno alla fogna degli stadi. Il peggio della street art c’era già tutto, solo che non sporcava permanentemente, ma solo finché i protagonisti erano lì, in azione.

I gesti insensati, ma non dannosi del John White di Drinking and Hooting Machine (1968) trasfigurano e sublimano nell’artificio quel che nasce nella brutalità. Sembrano una sorta di specchio per le musiche di Arvo Paert, prodotto per una sorta di infermeria dell’anima nella quale il farsi favola della vita dovrebbe rimediare al farsi delitto del capitalismo. Magari lo potesse.