Cultura

Il gesto che provoca resilienza

Il gesto che provoca resilienzaSharon Lockhart, «Nine Sticks in Nine Movements. Movement Three», 2018 (Courtesy the artist, neugerriemschneider, Berlin and Gladstone Gallery, NY & Brussels)

Intervista Un incontro con l'artista americana Sharon Lockhart, in mostra alle ex Manifatture di Tabacchi di Modena, per la Fondazione di Fotografia. «Il mio lavoro è sempre legato all’esperienza fisica dell’osservatore»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 21 aprile 2018

Sharon Lockhart (Norwood, Massachusetts 1964, vive e lavora a Los Angeles) allude all’ambiguità della società, mettendo in relazione diverse situazioni performative, anche in occasione della sua seconda personale italiana organizzata dalla Fondazione Fotografia Modena al Mata – ex Manifatture Tabacchi di Modena, a cura di Adam Budak e Diana Baldon con Chiara Dall’Olio, assistente curatrice e ricerca (fino al 3 giugno).
Alla gestualità, in particolare, l’artista statunitense demanda la responsabilità di un dichiarato atto di resilienza, andando a scavare nei meandri della storia per proporre un ipotetico collegamento con l’identità dello spazio espositivo che è stato «fabbrica del tabacco» fino al 2002. Lavoro, fatica e insubordinazione sono anche i temi centrali che Lockhart mette in luce attraverso il parallelismo tra le sue fotografie – quelle incentrate su forme di commercio «illegale», come Dirty Don’s Delicious Dogs, Moody Mart e Handley’s Snack Shop, parte del progetto Lunch Break (2008) e le stampe che inquadrano gli armadietti delle operaie in Men’s Locker Room Women’s Locker Room BMW AG (1998) – con i documenti cartacei e fotografici del posto. Dall’Archivio di stato provengono il registro delle multe (1957-58) e i libri delle punizioni inflitte al personale salariato (1961), mentre le foto degli anni ’60 sono dello studio modenese Botti e Pincelli (l’archivio è gestito da Fondazione Modena Arti Visive) che documentano manifestazioni di protesta di agricoltori che gettano il latte in strada e distribuiscono patate agli operai.
La tensione in atto tra rigidità del controllo e insubordinazione è insita anche nel movimento della protagonista della sua nuova serie fotografica Nine Sticks in Nine Movements e delle sculture in bronzo A Bundle and Five Variations (2018). Un po’ guerriera e un po’ rabdomante, la giovane donna posa afferrando i diversi bastoni di bronzo che derivano la forma da quelli veri, raccolti dall’artista nel deserto californiano. Leggerezza e pesantezza determinano il movimento, creando una coreografia in cui l’osservatore si ritrova a danzare con lo sguardo all’interno di uno spazio che è anche suo.

I suoi lavori sono processi organici in cui la dilatazione temporale assume una valenza significativa che permette di stabilire rapporti con le persone al di là del semplice scatto o della ripresa cinematografica. Come è nato questo progetto?
Mi ritengo una installation artist. Il mio lavoro non è solo legato al cinema e alla fotografia; in realtà, è imperniato sull’esperienza fisica dell’osservatore. L’architettura è fondamentale. Qui ci troviamo in un’ex fabbrica e, date le mie ricerche sul tema del lavoro e dello svago, è qualcosa che ha catturato la mia attenzione. Sono stata immediatamente interessata al fatto che ci fossero in maggioranza donne, operaie. Sono partita da documenti storici: un processo organico, appunto.

Qual è il rapporto tra fotografia («Nine Sticks in Nine Movements») e scultura («A Bundle and Five Variations»)?
Il lavoro fotografico è intitolato «nove bastoncini per nove movimenti», mentre le sculture in bronzo «un fascio e cinque variazioni». L’idea è quella della fisicità e di come il corpo reagisce a quei movimenti. Sichong Xie, la protagonista, ha in mano un oggetto – il bastone – che ha un suo peso. Sono pose che possono essere difficili da tenere, perché il peso determina il movimento. Le loro referenze vanno dalla storia dell’arte alla fotografia politica. Sono stata a Firenze, ad esempio, dove ho visto sculture incredibili con i corpi che tenevano i pesi piegandosi su loro stessi. Girando per la mostra si ha una percezione dinamica, soprattutto quando si realizza che il bronzo presente nella fotografia è la scultura. Quello più leggero pesa solo tre pounds e mezzo. Tutta la mia arte, qui, è legata a pesantezza e leggerezza. In un’altra immagine è evidente, invece, il tendine della ragazza teso per lo sforzo. Queste immagini di movimento sono importanti perché si riallacciano al gesto delle foto d’archivio del latte gettato in strada o delle patate, ma anche ai libri delle multe. Diversi modi di creare gesti dinamici. Questa mostra è fisica, ci sono elementi come latte, patate, bastoni, acqua, lavoro, fatica. La scelta dei bastoni, invece, è stata fatta in base a come potevano essere disposti tra loro secondo alcune regole dell’ikebana, grazie alla collaborazione con Ravi GuneWardena della Sogetsu School of Ikebana.
Le sculture sono state disposte in sei diverse composizioni. Forma, peso, equilibrio riflettono rapporti naturali e artefatti che legano i bastoni. Quanto allo spazio è concepito non per la visione d’insieme delle opere, ma parziale. Si possono vedere di volta in volta e le variazioni dipendono dal movimento dell’osservatore. Lo spazio e l’installazione stessa invitano a ritornare nelle diverse coreografie e a essere parte dell’esperienza.

Sharon Lochkart, foto di Manuela De Leonardis

Nella scelta di fare l’artista, prima di studiare performance al San Francisco Art Institute e poi all’Art Center College of Design di Pasadena, è stato decisivo l’incontro con la produzione di Cindy Sherman…
Mi ha affascinato l’aspetto concettuale del suo lavoro. Ero arrivata alla fotografia partendo dalla creazione dell’immagine attraverso lo scatto, poi ho scoperto Cindy Sherman, Sherrie Levine e James Welling. Per loro, il processo mentale è prioritario rispetto alla produzione dell’immagine.

Quando ha realizzato che non era necessario stare dietro alla macchina fotografica o alla cinepresa?
Inizialmente fotografavo con il banco ottico 4×5. È stato un processo lento. Ma non ero mai sicura del risultato, perché la maggior parte delle volte trascorrevo più tempo a parlare con le persone che ritraevo, andavo avanti e indietro, senza essere concentrata sulla tecnica. Probabilmente, avendo studiato con i artisti concettuali come Cristopher Williams o Stephen Prina, ho capito presto che non mi interessava l’autorialità dell’immagine.

Lei osserva il mondo attraverso lo sguardo dell’infanzia e dell’adolescenza, come in «Podwórka» (2009) e «Little Review» (padiglione polacco alla 57/ma Biennale di Venezia) in cui restituisce la memoria di un esperimento avanguardistico realizzato dal pedagogo Janusz Korczak, che coinvolse i bambini nella realizzazione del supplemento uscito in Polonia dal 1926 al ’39 sul quotidiano ebraico «Nasz Przeglad» (Our Review)…
La maggior parte del mio lavoro è basato su ricerche e richiede anni per la sua realizzazione. A proposito di Janusz Korczak, prima di sentir parlare di lui avevo già lavorato con i bambini per un ventennio. C’è qualcosa sulla resilienza che ci accomuna. Scoprire un pensatore così radicale per i suoi tempi è stato incredibile. Prima della guerra, lui pubblicò per 13 anni un giornale editato solo dai bambini. Non c’erano traduzioni, l’ho scoperto grazie alle ragazze della Youth Center for Socio-Therapy Rudzienko con cui ho collaborato in Polonia. È diventato un lavoro d’investigazione, durato molto tempo.

Significativa è stata poi la scoperta nell’Israel Museum of Jerusalem delle creazioni tessili di Noha Eshkol, coreografa cresciuta in un kibbutz ma anche artista che usava tessuti riciclati a cui lei ha reso omaggio in una rassegna al Lacma nel 2012…
Pure in questa mostra, alcuni movimenti derivano direttamente dalle sue teorie sulla danza e sulla coreografia. Fare arte, per me, significa anche imparare. Per esempio, è la prima volta che mi confronto con il bronzo. Non so mai completamente quello che sto facendo, dipende da dove mi conduce la mia stessa ricerca. Come Noha Eshkol, colleziono tessuti, cose trovate, non preziose. Recupero da vecchi abiti o compro nei mercatini. Tendo ad accumulare. Come i bastoni di manzanita, ippocastano dell’Ohio e noce nero – molti sono bruciati a causa dei grandi incendi – che ho portato agli amici in Polonia, raccogliendoli in California, nella Sierra Nevada. Molti li abbiamo usati con le ragazze per la coreografia dei balletti e ora sono diventati sculture.

Nei suoi lavori ricorrono i numeri… Come mai?
È divertente perché sono dislessica. Mi affascinano tutte le strutture e i sistemi.

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