Qualche riflessione su Nuits Blanches sur la Jetée, ultimo lavoro di Paul Vecchiali, su alcuni momenti della sua poetica in cui affiorano le ragioni di una corporeità che innerva il testo su livelli molteplici. «Cinema di movimento» dice di sé, dichiarando trasversalmente la referenza di tipo corporeo, poiché ogni movimento in un corpo si inscrive e rispetto a un corpo può essere percepito. Alcune sue dichiarazioni, poi, lasciano pensare a un’idea di cinema che il corpo, nelle sue possibilità percettive e cinetiche, assume come propria unità di misura e orizzonte veritativo. Quando definisce lo zoom un artificio meccanico inutile cui ovviare con un movimento in avanti della macchina da presa, quando rimbrottava Pasolini per il numero eccessivo delle cineprese che usava sul set, accusandolo di moltiplicare insensatamente il numero dei punti di vista-sguardi sul reale, Vecchiali implicitamente avalla un’idea di cinema che vede e sente come il corpo umano, lo assume a sua misura percettiva ed espressiva, e rifiuta quegli infingimenti visivi, gli sguardi impossibili e moltiplicati, i movimenti artificiali, gli artifici ottico-tecnologici, resi possibili dal mezzo cinematografico. Un cinema-corpo che aborre la falsificazione extra-corporea, in una ricerca che non mira al vero, alla riproduzione mimetica del reale, quanto alla verità nascosta delle cose come della audio-visione. Eppure la raffinata poetica visuale di Vecchiali riesce a caricare questo reale guardato secondo modalità naturali di mille istanze emotive e significati ulteriori, che sono la verità delle cose. La verità che cerca anche quando modifica l’equalizzazione di singole parole in post-produzione, nel tentativo sperimentale di farne emergere la verità timbrica e fonetica, prima di quella semantica, letterale o drammaturgica.

In alcune scene di Nuits Blanches sur la Jetée, siamo passati all’argomento principale di questa riflessione, la poetica di Vecchiali, sembra rivolta più alla res extensa che non alla res cogitans, il film riguarda prima le percezioni, i sensi, e dunque il corpo, e solo dopo si apre all’interpretazione razionale e culturale del testo. Sono i colori, il suono, la musica, la liquida luce e l’ombra, i materiali di questo artigianato dell’impalpabile, prima ancora della parola recitata o scritta. L’emozione, il senso, la minaccia si sciolgono nella pasta rubina del tramonto abbacinante, o nel baluginio arlecchinesco delle mille luci della notte, nelle assenze presenze del suono e nelle alternanze di visione e buio, nella verità fonetica di una voce-suono che precede il verbo.

Ecco che allora quando deve mettere in scena la paura che il protagonista ha di perdere la sua amata Natacha, Vecchiali non lo fa recitandola o spiegandola o in qualche modo dicendola, ma evocandola come fantasma sensoriale, suggerendola, nella negazione della voce di lei, in una metonimia sensoria della perdita totale, pars pro toto. Natacha muove le labbra belle ma Fëdor, il dostoevskiano protagonista, non ode più la sua voce, in una vertigine silente e panica di abbandono. Vecchiali manipola strategicamente un dato percettivo elementare, come la presenza di un’emissione vocale in corrispondenza di un certo tipo di moti labiali, per inoculare significazioni ed emozioni nelle arterie del suo film, passa dal corpo e dalle sue percezioni per arrivare alla mente e al cuore.

Questa grammatica segreta è pre-culturale e pre-verbale, primordiale, verrebbe da dire, visto che inerisce a funzioni elementari ed estremamente antiche del nostro sistema nervoso e celebrale, come la percezione cromatica o la decrittazione dell’informazione uditiva e spaziale, possibilità ancestrali del corpo, dal significato universale, che il cinema è in grado di iper stimolare. La questione non è di poco conto, dal punto di vista delle dinamiche percettive e cognitive che mette in campo. Elidere la voce di un parlante è un segnale forte, perché viola quel principio psicofisiologico involontario e universale che Michel Chion chiamava sincresi e che ci porta inevitabilmente, a stabilire un nesso di causalità tra un evento visivo e uno sonoro ad esso simultaneo. Se sento un colpo e vedo un martello battere stabilirò che questo è la causa di quello. È il principio che rende credibile il doppiaggio dei film.

Vecchiali lavora sui meccanismi minimi, basici, della nostra interpretazione del mondo fisico anche quando, e lo fa spesso, utilizza il colore per i suoi fini drammaturgici. Quando sfrutta le qualità incredibilmente emozionali di un abbacinante tramonto rosso, quando riempie la notte di puntiformi luminescenze variopinte o quando illumina i volti di cangianti luci dai viraggi cromatici diversi dialoga direttamente con l’area V4 del nostro cervello visivo (lobo occipitale), il centro di elaborazione del colore, una regione estremamente antica del nostro encefalo, che permetteva ai nostri antenati di distinguere un frutto velenoso da uno commestibile o il manto di un predatore nella boscaglia. Il colore di un oggetto viene percepito tra 80 e 100 millisecondi prima del movimento e dell’orientamento, la sua informatività è elementare, rapida e dalla portata universale. Ed è questa, forse, la forza maggiore di questo film, il suo rivolgersi alla nostra componente animale, sensoria, corporea che al di là e prima delle determinazioni culturali e idiosincratiche ci rende tutti uguali.

Percezione, cromatica, uditiva, spaziale e corpo dominano questo cinema, il corpo come concreto suolo in cui tale percezione radica, abbiamo detto, ma anche il corpo performatico, quello attorico, che agisce il e nel film e che Vecchiali usa come pedina viva muovendolo, posizionandolo, mostrandolo in ragione di un disegno di senso ultra-attorico, suo personale e intimo.

Un corpo ben diverso da quello metaforizzato, quasi astratto, che abbiamo incontrato parlando con Bressane, che della fisicità danzante della propria protagonista faceva crocevia simbolico di istanze culturali, una rappresentazione metaforica dell’amplesso, mise en abîime interlinguistica, che a sua volta rimanda a questioni di ordine mistico-religioso, al legame col sacro e con l’energia del corpo. Quello di Vecchiali è un corpo assunto a partire, prima di tutto, dalla sua concretezza, dal suo stare modale nello spazio, il fonema di carne di una raffinata e nascosta grammatica posizionale e prossemica, in cui le relazioni spaziali tra i corpi dei personaggi diventano scrittura poetica del dato emozionale e psicologico. I due potenziali amanti inizialmente si cercano, si studiano, non si fidano, poi si fidano solo un po’ e solo alla fine si abbandonano al sentimento amoroso. Vecchiali, da giocatore di scacchi consumato, muove i loro corpi-pedina secondo figurazioni spaziali, di presenza-assenza, di vicinanza lontananza, che da sole, in assenza di verbo, esprimono il decorso affettivo dall’estraneità all’amore, dalla distanza alla prossimità reciproca di Fëdor e Ntacha. Il regista, spodesta l’attore, e ne agisce il corpo agente secondo un percorso ulteriore e sotteso. Lei è in fuoricampo (assenza, non corpo) mentre lui è perfettamente centrato nel quadro (presenza, corpo) lui allora le afferra gentilmente le mani e la tira amorevolmente in campo, nel regno della presenza, e alla sua com-presenza. I due si trovano ai margini opposti del quadro (distanza) si incamminano uno in direzione dell’altro (reciprocità) e si incontrano nel centro geometrico dello schermo (vicinanza), si congiungono in una predizione dal valore sintomatico.

Vecchiali gioca con queste «micro discarsie della presenza», evita di far comparire i due corpi contemporaneamente nel quadro e quando è costretto a mostrarli insieme un gioco abilissimo di luci e bui ne mostra uno (presenza) e nasconde (assenza) l’altro tra le ombre del molo, orchestrando un montaggio interno alla scena dall’impronta teatrale. Gli sguardi a volte perdono il loro accordo direzionale, o si scoprono incapaci all’incontro che presentifica «l’altro», divergenti o distratti, in translitterazioni plastiche dell’assenza che ancora minaccia i cuori.

Mentre lei si allontana, dopo aver scritto al suo vecchio amore, una forte luce, fantasmatica ed emotiva, abbacina il campo visivo, scivola sul primo piano di lui, illuminandolo per un’istante, e qui si spegne cancellando quel volto nell’assenza del buio. Solo alla fine, quando anche lei cede all’amore, alla presenza di lui nella sua vita, lo scacchista crudele che muove la partita metterà re e regina uno di fronte all’altro, nella vicinanza vertiginosa e finalmente raggiunta dell’abbraccio, occhi che solo ora possono trovare quegli altri occhi, in quel bacio interrotto che chiude il film su un coronamento mancato.

L’assenza si fa acustica nella scena in cui Fëdor non sente più la voce di lei. È gergo dei corpi, quello di Nuits Blanche Sur La Jetée, che ai corpi parla e che i corpi usa per esprimersi perché della sensazione e della fisicità fa parola oltre la parola, un gergo che proprio nel corpo trova la propria referenza interpretativa primigenia, il destinatario perfetto, interlocutore unico per la muta lingua dell’appercezione.