La cena è servita. La festa, i sorrisi, le canzoni, gli auguri, le foto, le danze, una certa allegria disinvolta, una complicità capricciosa, i riti di una vecchia famiglia patriarcale, come di un tempo sospeso sull’abisso che cerca le giuste cadenze per andare avanti. Poi la tragedia è servita. Ruvida e violenta, come una ghigliottina che cala improvvisa e si abbatte con fragore di urla. Un buco nero che tutto inghiotte e cancella. Una delle ferite più aguzze che ha squarciato le coltri del Novecento, si imprime con dilaniante sconquasso nel corpo drammatico della tradizionale Festa del Teatro di San Miniato (siamo alla 72esima puntata).

La ferita, ancora aperta, andata in scena l’altra sera in piazza del Duomo, è il genocidio degli armeni, un secolo fa, una verità non restituita che aspetta giustizia, sempre caparbiamente negata dai turchi. Ma non è tanto la tragedia in sé, raccontata da Antonia Arslan nel romanzo La masseria delle allodole, apocalittico trapasso dalla pacificata, secolare convivenza di etnie diverse alla delirante deriva nazionalista impressa dal nuovo governo democratico dei Giovani Turchi, a interessare il regista Michele Sinisi (che insieme a Francesco Maria Asselta ha curato la riduzione). Per la Arslan la masseria fu un gesto simbolico, il riappropriarsi a posteriori di una indentità, traumaticamente recisa al tempo del massacro.

Per Sinisi la masseria, con tutte le storie, le gioie e i dolori, sussurri e grida, che ci stanno dentro e rimbombano fuori, è un contenitore di riflessi (e riflessioni) che si proiettano inquieti sul mondo di oggi, un canovaccio da «sperimentare» anche poeticamente, un mosaico di espressioni drammaturgiche che rimbalzano dal teatrino brechtiano all’avanspettacolo epistolare, dal kammerspiel alla ballata popolare, dallo studio televisivo al set cinematografico, dalla liturgia del corpo eucarestia al materialismo del corpo feticcio, dal posto delle fragole alle fragole e sangue.

In un susseguirsi di scene madri che tolgono il respiro e affollano l’udito, cullati dalle canzonette di Aznavour e dai vocalismi di Antony and the Johnsons, l’eco dei «fatti» si mescola, nella coralità dell’impianto scenico di Federico Biancalani, con l’esasperata amplificazione tecnologica, fra schermi e microfoni.
Finché la vicenda precipita, inghiottita in un mare di grucce, effetto domino con gli occhiali, le scarpe, i capelli «esposti» ad Auschwitz, la masseria della Shoah. Repliche fino al 25 luglio.