Le celebrazioni per il centenario del genocidio armeno sono all’apice: Yerevan pare come frastornata. In città si respira l’attesa per il grande evento che segnerà la storia del paese. Mentre affluiscono le delegazioni ufficiali venute a prestare omaggio alle vittime del genocidio, mentre sopraggiungono gli armeni della diaspora – discendenti dei sopravvissuti a quei tragici eventi sparsi in ogni parte del globo -, gli animi si accendono e con loro la tensione. Non è una cosa di tutti i giorni, qui, avere addosso gli occhi di mezzo mondo. C’è la paura di sfigurare, ma anche la vergogna per una miseria diffusa e difficile da nascondere, cresciuta negli ultimi anni accanto a una classe di oligarchi che divora le poche risorse del paese.

L’attesa è grande, perché grandi sono le aspettative. Prima di tutto, quella del rilancio diplomatico del paese: dopo l’adesione forzata e un po’ rocambolesca all’Unione economica eurasiatica voluta da Putin, l’Armenia ha rischiato di veder sfumare quella politica della complementarietà (alleati della Russia, ma nello stesso tempo in buoni rapporti con Stati uniti, Europa e Iran) che in passato aveva dato buoni risultati. Ma l’obiettivo di questi giorni è anche di rilanciare il paese come polo di attrazione politico e economico per la diaspora armena. Un rapporto non sempre facile, che dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica ha dato prova di grande solidarietà, ma ha generato a volte incomprensioni ed equivoci. E così, lo sguardo di Yerevan è puntato soprattutto su ciò che seguirà le commemorazioni: il futuro pieno di incognite che si profila per l’Armenia.

Una sfida che ora si misura sull’utilizzo di un termine che sta creando imbarazzo nelle cancellerie di mezzo mondo: la parola «genocidio». Una parola, sia detto subito, che ha a che fare con gli armeni fin dalla sua stessa origine. In breve, il giurista Raphael Lemkin coniò il termine genocidio, a quel tempo un neologismo, proprio sulla base della somiglianza da lui riscontrata fra la Shoah e il genocidio armeno. La «Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio», adottata dall’Onu nel 1948, riprese la sua definizione e fu in gran parte ispirata da Lemkin.

Ora, che cosa distingue un genocidio da altri massacri o stragi? Uno degli elementi fondamentali, che è anche l’oggetto del contendere fra Turchia e armeni, è «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Secondo la Turchia, l’Impero ottomano non ebbe questa volontà politica, e si trattò di massacri per così dire «spontanei», avvenuti nel contesto tragico della disfatta militare e della dissoluzione dell’impero. Secondo gli armeni, ci fu invece una pianificazione sistematica di tali atti da parte del movimento dei Giovani turchi.

Tornando al centenario, negli ultimi giorni diversi paesi, autorità e organismi internazionali si sono trovati a misurarsi con questa definizione. Oltre al pontefice – le cui parole hanno avuto ampia eco a Yerevan, dove pure i cattolici sono una sparuta minoranza – a condannare il genocidio degli armeni c’è stata la risoluzione, approvata dal Parlamento europeo, e ancora la dichiarazione congiunta del Parlamento austriaco, firmata ieri dai sei gruppi parlamentari. Per venerdì, invece, si attende una risoluzione del Bundestag tedesco, che si profila anche in questo caso favorevole agli armeni.
Sul fronte opposto, fra coloro che non riconoscono il genocidio, si registra in primo luogo il perdurante silenzio della Casa bianca. Le promesse di riconoscimento fatte in campagna elettorale da Obama non hanno trovato riscontro negli anni di presidenza. Quello del genocidio armeno resta, salvo sorprese dell’ultimo minuto, un tabù che finora nessun presidente si è azzardato a violare. La scelta di non infastidire un importante partner della Nato come la Turchia ha sempre prevalso, a Washington, su ogni considerazione morale o storica.

Non solo a Yerevan, anche a Istanbul, in piazza Taksim, si terrà il 24 aprile una commemorazione del genocidio. Il governo turco ha poi organizzato lo stesso giorno una celebrazione della battaglia di Gallipoli, in concorrenza ai festeggiamenti di Yerevan. Ne è nata una sequela di polemiche che non ha giovato ad Ankara, che pure ha raccolto le adesioni, fra gli altri, di Carlo d’Inghilterra e del presidente azerbaigiano Aliyev.
Nelle prossime ore, con ogni probabilità, fioccheranno le dichiarazioni.