Stagnazione, crisi, declino. Tre parole tornate al centro della discussione pubblica per essere rimosse ogni volta che il Prodotto interno lordo cresceva di qualche decimo di punto in percentuale; o quando veniva quantificata la crescita dell’occupazione in poche decine di migliaia di unità. (Su questi temi va segnalato l’articolo di Pierluigi Ciocca pubblicato su il manifesto il 9 Agosto).
C’è però chi sostiene, come Alec Ross, consigliere per l’innovazione della seconda amministrazione Obama, che un nuovo circolo virtuoso dell’innovazione è già in essere e porterà una nuova era di prosperità se solo le nuove industrie del futuro troveranno il contesto politico adeguato per svilupparsi liberamente (Il nostro futuro, Feltrinelli, pp. 341, euro 19,50), così come è accaduto con Silicon Valley negli anni Ottanta e Novanta del Novecento.

Ma creare una nuova Silicon Valley non è una semplice operazione da laboratorio sociale, come d’altronde lo stesso Ross riconosce. Ci sono infatti voluti oltre quarant’anni affinché quella striscia di terra passasse da regione agricola a centro nevralgico della tecnologia digitale. Di mezzo, la grande crisi del ’29, il New Deal, una guerra, la presenza di una prestigiosa università (Stanford), la vicinanza di San Diego, scelta dalla marina statunitense per produrre navi da guerra e sottomarini nucleari dagli anni Sessanta, e di un’altra metropoli: Los Angeles, cioè Hollywood, che oltre a essere capitale del cinema è da sempre il contesto produttivo dove applicare nuove tecnologie che venivano «inventate» altrove. Pensare che basti investire miliardi di euro e tutto germogli come in un prato ben curato significa considerare i rapporti sociali some una «esternalità» all’attività economica e non il suo indispensabile habitat.

La superstizione neoliberista

Questa attesa messianica di una nuova ripresa economica si nutre di un senso comune che sfugge a ogni verifica della realtà. Si è di fronte a una situazione come quella successiva alla scoperta di Galileo, quando cioè la stragrande maggioranza della popolazione ha continuato a credere che la terra fosse piatta, assegnando al senso comune un insopportabile potere performativo.
Della necessità di cambiare rotta ne sono invece convinti anche studiosi ed economisti che da anni segnalano la necessità di un ritorno a politiche sociali altrimenti il capitalismo è destinato a una fine ingloriosa. È quanto emerge dall’introduzione di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs, curatori del volume collettivo Rethinking Capitalism: Economics and Policy for Substainable and Inclusive Growth (Wiley Blackwell).
Il volume, da poco in libreria, oltre ai saggi dei due curatori vede i contributi del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, di Andrew G. Haldane, direttore del centro ricerche e statistiche della Banca di Inghilterra, di William Lazonicks (considerato uno dei massimi studiosi di matrice shumpeteriana), di Colin Crouch, sociologo economico noto per i suoi studi sul regime postdemocratico sviluppato dal neoliberismo, e molti altri ancora.

Autori certo non sospetti di anticapitalismo militante, ma che comunque denunciano come la crescita delle disuguaglianze sociali, il potere assoluto della finanza e l’inquinamento ambientale blocchino non solo lo sviluppo economico, mettendo in pericolo lo stesso capitalismo. Il decalogo proposto per fermare questa corsa verso il baratro ha come baricentro l’investimento degli stati nazionali nella ricerca scientifica e nella formazione e una indispensabile estensione dei diritti sociali di cittadinanza.

Sono anni che Mariana Mazzucato propone questo punto di vista, producendo un critica corrosiva verso la retorica neoliberista che considera la ricerca scientifica come un settore. Nel suo libro più noto, Lo Stato investitore (Laterza), ha inoltre ricordato che senza gli investimenti statali nella ricerca non avremmo il personal computer, Internet, l’iPhone, l’iPad e gli smartphone.
L’investimento nella formazione e nella ricerca è però a lungo termine, per accumulo e successiva diffusione della conoscenza tecnico-scientifica. L’innovazione, infatti, è la combinazione inedita e tuttavia finale di conoscenze date. Allo Stato, questa la tesi di Mazzucato, il compito di creare le condizioni, di creare e diffondere nuove conoscenze, favorire la formazione di forza-lavoro qualificata, lasciando tuttavia mano libera alle imprese di perseguire i propri obiettivi.

Nel saggio di Alec Ross tutto questo viene relegato sullo sfondo. L’importante per il consigliere di Obama è indicare il sentiero giusto dove inoltrarsi. Con uno stile apodittico in difesa del libero mercato, Ross afferma che la «rivoluzione del silicio» ha ancora molta spinta propulsiva da esprimere.
Le imprese del futuro riguardano la moneta elettronica, con buona pace degli attivisti libertari che la vedono come uno strumento per affrancarsi dal potere dello stato e del capitale. I Bitcoin nelle loro diverse versioni hanno smesso di essere una realtà di nicchia per fare ingresso nel grande business della Rete: possono servire a garantire sicurezza nelle transazioni economiche e possono essere usate per rendere governabile il flusso di capitali generato dalla finanza. Sono cioè uno strumento «indigeno» di stabilizzazione del capitale finanziario senza che lo stato nazionale intervenga nel governo della moneta o che qualche organismo internazionale definisca regole agli operatori economici.

La sicurezza è l’altra parola chiave per decodificare la traiettoria che prenderà l’innovazione. Ross allude infatti alla cybersicurezza come la nuova miniera d’oro per le imprese. Nel capitalismo digitale, infatti, il flusso di informazione e di capitali deve essere continuo, evitando che qualche cracker si appropri di «dati sensibili». Serve anche a garantire la privacy, che diviene anch’essa una merce da vendere dietro più o meno lauti compensi. Il tutto all’interno di una nuova divisione internazionale del lavoro che vede le imprese statunitensi, israeliane e inglesi, fare la parte del leone nel coordinare la cybersicurezza a livello globale, mentre i lavori sempre più standard nell’elaborazione dei dati possono essere delegate a software-house e imprese dei paesi cosiddetti emergenti.

Con una fede cieca nel progresso, Ross è convinto dunque a vedere nello sviluppo dei Big data l’«evento»che farà ripartire l’economia mondiale. Allo stato nazionale – qui si riferisce agli Stati Uniti – il compito di armonizzare l’appropriazione da parte delle imprese di dati individuali, garantendo però la salvaguardia di alcuni diritti individuali.

Oltre ai Big data, futuro all’insegna dell’abbondanza sarà garantito anche dalle biotecnologie. Dopo la mappatura del Dna, occorre imparare a manipolarlo per curare malattie più o meno gravi. Basta avere fede nella scienza e non mettere ostacoli in base a superstizioni e una visione regressiva dell’etica.

Ross è convinto che malattie debilitanti come l’Alzheimer, il cancro e molte altre potranno prima o poi essere curate. Da qui l’invito a investire nella ricerca, ma soprattutto l’invito a trasformare i suoi esisti in prodotti da vendere. L’industria chimica e farmaceutica potranno così prosperare, mentre la ricerca scientifica in senso stretto può diventare attività produttiva, grazie all’apporto di venture capitalist e all’intraprendenza imprenditoriale di ricercatori e scienziati.

Un problema tuttavia emerge. Farmaci, analisi del Dna costano molto: per una realtà sociale globale segnata da forti diseguaglianze sociali c’è la possibilità che sarà un settore destinato a quel 1 per cento della popolazione globale che si appropria del 75 per cento della ricchezza prodotta. Le biotecnologie possono dunque diventare una industria pensata e sviluppata per i ricchi. Al resto dell’umanità farmaci generici e sanità di bassa qualità. Così quello che viene spacciato come il nuovo eden del capitalismo riproduce i rapporti sociali di produzione dominanti, cioè quella «esternalità» dove il neoliberismo ha attinto per appropriarsi dell’innovazione prodotta socialmente o che ha trasformato in merce la cura del sé e la produzione di conoscenza.

Compagni di strada

Anche se il saggio di Ross è utile per capire lo stato dell’arte nella trasformazione della produzione di conoscenza in settore produttivo, è altrettanto povero di indicazioni su come il compimento della rivoluzione del silicio possa determinare l’uscita dalla crisi. In primo luogo, la nuova rivoluzione della macchine si basa su miglioramenti della tecnologia esistente senza aumentare l’occupazione. Inoltre, rimuove il ruolo della finanza e della crisi nel ridisegnare la geografia dell’economia mondiale. Un processo autoritario e violento: sul piano nazionale con le politiche di austerità; con la la guerra a livello internazionale, tornata così ad essere la continuazione delle politiche di potenza con altri mezzi.

Finanza, automazione del lavoro manuale e cognitivo sono componenti di un sistema jobless growth, dove cioè si è interrotto il circolo virtuoso che vedeva il travaso di occupati da un settore in declino ad un altro settore emergente. Ma se la disoccupazione è diventata strutturale e di massa, la diffusione di rapporti precari di lavoro punta a creare una paradossale e inedita situazione di «piena occupazione precaria» con salari in costante diminuzione. Più che discettare sulla stagnazione, va quindi messa all’ordine del giorno l’incapacità del capitalismo di essere un progetto di società percorribile. Non siamo cioè alla sua fine, ma al fallimento del suo progetto di società. E quel che appariva un affresco «arcaico» di relazioni sociali – pochi ricchi, tanti poveri – rivela una inedita capacità di rappresentare tale fallimento. Vale dunque la pena tessere la trama della riflessione con chi invece propone un «ripensamento» del capitalismo. Joseph Stiglitz, William Lazonicks, Mariana Mazzucato possono cioè essere compagni di strada di chi invece propone una radicale trasformazione dei rapporti sociali. Dei compagni di strada in un percorso politico teso a mettere in discussione il paradigma dominante. Ma poi ognuno per la sua strada e chi ha più filo tesserà meglio la sua rete politica.

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SCAFFALE – I report di Davos e dell’Ocse sull’automazione

La disoccupazione dei paesi europei e negli Usa è un problema sociale che non sarà certo risolto dal mercato. È questo ormai diventato il rovello anche di neoliberisti pentiti e di molte organizzazioni internazionali che hanno fatto della flessibilità il loro mantra per oltre vent’anni. Ma la necessità di un ripensamento viene anche dal forum di Davos, cioè quell’incontro annuale in terra svizzera di capitalisti, grandi manager e leader politici. Nel 2016, a sorpresa, durante le giornate del meeting è stato presentato una ricerca sugli effetti dell’automazione del lavoro (sia manuale che cognitivo). Come si può leggere nel report (http://reports.weforum.org/future-of-jobs-2016/)
saranno cancellati da qui a due anni centinaia di milioni di posti di lavoro senza che gli «esuberi» siano riassorbiti. Stesse conclusioni arrivano da una altra analisi del Pew Institute (http://www.pewinternet.org/2016/03/10/public-predictions-for-the-future-of-workforce-automation/) e dall’Ocse (http://www.oecd.org/employment/future-of-work.htm)