Ancora sulle divergenze tra il compagno Renzi e noi. Per parafrasare, con sprezzo del pericolo e delle proporzioni, la polemica del 1963 tra i comunisti cinesi e Palmiro Togliatti. Il riferimento, invero più angusto, riguarda la riforma della Rai. In attesa di leggere con attenzione un qualche cosa di scritto in linguaggio giuridico, ci si attiene al «testo che seguirà», come ha scritto con arguzia Michele Ainis sul Corriere della sera di sabato 14 marzo.

Per ciò che è dato sapere, però, il quadro che si presenta è persino un po’ peggio di quello cui ci si era riferiti nei giudizi «a caldo». Infatti, il ritornello autunno-inverno del Governo «fuori i partiti dalla Rai» –che fa pensare al tormentone estivo di qualche anno fa vamos a la playa, per insistenza e reiterazione- non trova al momento concreta traduzione nelle ipotesi avanzate dall’esecutivo. Se tutto si dovesse ridurre, infatti, al passaggio da nove consiglieri di amministrazione a sette, di cui ben quattro eletti dalle Camere, altro che rivoluzione copernicana.

Tra l’altro, come è stato segnalato in tempo reale da Roberto Zaccaria, l’eventuale affidamento della scelta al Parlamento in seduta comune richiederebbe una modifica costituzionale, visto che le casistiche sono tassativamente previste dalla Carta. Quindi, lo spirito dei partiti rientra dalla porta, neppure dalla finestra.

Prova ne sia che l’obsoleta Commissione di vigilanza (pensata in epoca di monopolio) rimane e ribadisce la bardatura di un meccanismo di governance nient’affatto semplificato. Inoltre, due consiglieri sarebbero indicati dal Ministero dell’economia e uno – il prediletto – assurgerebbe al ruolo di amministratore delegato. E’ lecito chiedersi dove stia la vera novità.

Se si analizza la questione in punto di forma, c’è solo da ricordare che l’attuale vertice ha già amplissimi poteri, previsti dalla (ahinoi) legge Gasparri e dallo stesso statuto dell’azienda. Se, invece, si intende introdurre una «rottura» simbolica, alla Marchionne per dire, allora articoli e commi contano ben poco. Il contentino offerto alla cultura partecipativa viene a ridursi al componente designato dai dipendenti: proprio poco e persino imbarazzante.

Suvvia. Che senso ha dibattere ossessivamente di modalità di nomina, di criteri di scelta, dei ruoli e funzioni senza chiarire visioni e linee generali?

Cosa deve diventare, insomma, il servizio pubblico nell’epoca in cui le previsioni sull’evoluzione delle tecniche e dei modelli di consumo si stanno avverando? Servono tanto una strategia industriale quanto un’opzione culturale. Il resto viene di conseguenza.

Quand’anche resuscitasse Steve Jobs e si accampasse a viale Mazzini che farebbe? E non è credibile rispondere a simile interrogativo senza rimettere mano all’intero universo dei media, aprendo la strada ad un effettivo sviluppo integrato, superando concentrazioni e conflitti di interessi.

Insomma, non di sola governance vive la Rai. Non ha senso tenere i tavoli (editoria, banda larga, industria dell’audiovisivo, diritti e doveri nella Rete) separati e incomunicanti . Così, un’altra occasione andrà perduta.

Si è detto in coro che ciò che si annuncia ha il sapore di una controriforma, di un viaggio nel passato, con il rischio di andare contro la giurisprudenza della Consulta. Non sarebbe meglio, allora, prendere in esame le varie proposte di legge già depositate e invitare gli interlocutori coinvolti ad un confronto impegnativo e trasparente?

Parrebbe logico. A meno che il disegno, a pensar male, sia altro.