Con la cinematografia cinese oramai pronta a superare, per massa, quella americana, e con le tensioni nella zona estremo orientale sempre pronte a scoppiare ed allargarsi in qualsiasi momento, le coproduzioni filmiche fra Giappone e Cina suscitano sempre interesse. Una, forse la più vistosa e quella che ha fatto più notizia negli ultimi mesi, è Legend of the Demon Cat lungometraggio diretto da Chen Kaige con i giapponesi Shota Sometani e Hiroshi Abe ed i cinesi Xuan Hung e Yuqi Zhang fra gli altri. Ora nelle sale giapponesi, si tratta di una sontuosa super produzione farcita di effetti speciali ed ambientata durante la dinastia Tang (618-907), dove si muovono i protagonisti, il monaco giapponese Kukai ed il poeta cinese Bai. I due indagano su strani accadimenti che sconfinano nel paranormale alla corte imperiale, fin dalle primissime scene viene introdotto quindi quello che, quasi sulla scia di Edgar Allan Poe ma forse anche seguendo il Kuroneko di Kaneto Shindo, è uno dei protagonisti della pellicola, un gatto nero. Realizzato in parte con la computer graphic ed in parte utilizzando animali veri, il felino parlante è anche dotato di poteri sovrannaturali e porta morte e scompiglio nei palazzi imperiali e nelle case di piacere dove si svolgono alcune delle scene meglio coreografate di tutto il film.
Il duo, cercando di scoprire che cosa voglia il gatto nero e provando ad indagare su tutto ciò che succede a corte, si imbatteranno in storie di vendetta che risalgono a 30 anni prima. Il film è tratto da un romanzo dello scrittore giapponese Baku Yumemakura intitolato Samon Kukai ed è ambientato in un mondo dove illusione, realtà ed ricordi del passato si fondono e si mescolano senza soluzione di continuità e dove la magia gioca un ruolo molto importante. Purtroppo le buone premesse che le primissime scene del film lasciavano intravedere, oltre ai titoli di testa su una tavolozza acquerellata molto interessante, una riproduzione della capitale e del palazzo imperiale da togliere il fiato, per vivacità di colori e iperrealismo, con lo svilupparsi della storia, la narrazione si sfalda spesse volte. Non solo le varie linee narrative sono un po’ confuse ed raffazzonate, portare su pellicola un romanzo e tutti i suoi multipli intrichi è sempre difficile, ma anche le performance dei vari attori lascia il tempo che trova. Sprecato Hiroshi Abe e non del tutto a suo agio il pur talentuoso Shota Sometani, ricordiamo premio «Marcello Mastroianni» come miglior giovane attore nel 2011 a Venezia per Himizu di Sion Sono. Meglio gli attori cinesi, su tutti Huang nella parte del poeta Bai e la taiwanese Sandrine Pinna in quello della concubina preferita dall’imperatore, ma a rendere il film degno di visione sono soprattutto il set design, le coreografie e gli effetti speciali, per una volta all’altezza del prodotto e delle aspettative. Sembra che la monumentale e certosina opera di ricostruzione dei palazzi imperiali sia stata fatta in ben cinque anni e che finite le riprese il luogo sarà trasformato in un parco giochi.

Se il film manca la coesione narrativa di cui si diceva più sopra, Chen Kaige, regista della cosiddetta «quinta generazione» di registi cinesi, si conferma come un maestro nel rappresentare la bellezza architettonica e della vita di periodi antichi, in questo senso Addio mia concubina, con cui vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 1993, resta forse ancora oggi il suo lavoro più conosciuto. In Legend of the Demon Cat il tocco del regista riaffiora qui e là, soprattutto nelle coreografie delle danze e delle battaglie, nei movimenti di camera e quando descrive il dramma dei personaggi, specialmente nella parte finale del lavoro.

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